FARINA DEL TUO SACCO
Tantissimi modi di dire sono fioriti intorno al mondo del pane. E tutti toccano comportamenti e regole di convivenza che sono alla base del nostro vivere
Dopo aver parlato nello scorso numero di dicembre dei pani dolci e ricchi che accompagnano le feste, ci occuperemo qui dei modi di dire legati al pane semplice, quello di tutti i giorni, e al suo ingrediente, la farina. Dalla manna venuta dal cielo a sostenere il popolo ebraico nel cammino dell’esodo verso la libertà, al pane non lievitato che si trovava sulla mensa dell’ultima cena di Gesù con i suoi apostoli, sono innumerevoli le testimonianze della tradizione religiosa che dimostrano che il pane è da sempre nutrimento e insieme simbolo originario della nostra cultura. E lo dice chiaramente anche il linguaggio.
IL PANE
è elemento essenziale dell’alimentazione dell’uomo, anzi, fondamento della sua stessa sopravvivenza: tanto che «STARE A PANE E ACQUA» significa essere ridotti proprio all’essenziale, a una condizione minimale. Il pane, trasformazione della farina, prodotto del grano, e del lavoro dell’uomo, non si getta, non si spreca: è simbolo della lotta alla fame, incubo terribile dell’umanità e segno sempre di profonda ingiustizia. Il pane richiede lealtà, e rubare il pane è crimine grave: NON SI MANGIA PANE «A TRADIMENTO» O «A UFO» (UF!), non ci si prende qualcosa che non si è guadagnato; alla fine dell’Ottocento si forma «MANGIAPANE» di GIOVANNA FROSINI
come parola autonoma, che sintetizza in una forma sola tutto un giudizio negativo. Non ci si prendono meriti altrui: «NON È FARINA DEL TUO SACCO» indica dalla fine del Cinquecento un comportamento disonesto e scorretto, e risale a tempi in cui il sacco era la misura della farina. Al contrario, sarà bene imparare a «DIRE PANE AL PANE», parlare chiaro, senza sotterfugi e senza giri di parole.
«RENDERE PAN PER FOCACCIA»
significa rendere il pari, ma con una sfumatura non positiva, come l’occhio per occhio e dente per dente: nell’ottava novella dell’ottava giornata del Decameron l’espressione è usata – sembra per la prima volta – per indicare un tradimento con cui ci si vendica di un tradimento: non proprio una storia edificante, in effetti. Dante lo aveva già detto, ricorrendo non al mondo del pane ma a quello della frutta: frate Alberigo, per indicare la sua vendetta, aveva ripreso «dattero per figo» (Inferno, XXXIII).
FARINA E CRUSCA
sono al centro della simbologia della più antica Accademia che, in tutta Europa, si occupa di lingua, appunto l’Accademia della Crusca, evoluzione seria delle «cruscate», ossia dei giocosi e conviviali stravizzi dei giovani intellettuali fiorentini. Frullone, sacconi, pale sono gli arredi materiali ispirati al mondo e ai mestieri della farina, mentre si studiano e si pubblicano la Commedia e gli antichi testi, e si compila quel Vocabolario che è chiamato appunto A SETACCIARE IL PIÙ BUONO (IL FIOR DI FARINA) DAL MENO BUONO (LA CRUSCA). CIBO INTELLETTUALE È IL «PANE GLI ANGELI» di cui parla Dante nel suo grande trattato filosofico, il Convivio (II, 7): la scienza è pane, cibo della mensa dei sapienti, nutrimento dell’intelletto, degno degli angeli, che sono pure intelligenze.
Ma Dante sa bene, e ci ricorda, che accanto a questo pane esiste un pane quotidiano, amaro e doloroso: quello che si deve chiedere, quasi mendicare dagli ospiti e dai protettori, salendo con fatica le loro scale: IL PANE DELL’ESILIO, CHE «SA DI SALE», perché non è più il pane di Firenze e della Toscana, che da sempre si fa senza sale, e perché ha in sé l’amarezza dell’esilio.
E con un omaggio a Dante, di cui si è appena concluso l’anno del settimo centenario della morte, chiudiamo questo viaggio nell’immaginario del pane, sperando che il nuovo anno smentisca, per una volta, il detto che vuole che «NON TUTTE LE CIAMBELLE RIESCONO COL BUCO», per scoprire che il mondo si è deciso, finalmente, a essere «BUONO COME IL PANE».