La Gazzetta dello Sport - Bologna
De Rossi-Tudor più di un derby
L’allenatore tifoso Daniele con la Lazio non può tradire
La più grande forza di Daniele De Rossi? Non saper mentire a se stesso. La sua più grande debolezza? Non saper mentire a se stesso. Essere tifoso della squadra che allena è ciò che ne fa un guerriero, ma è la cosa che lo rende vulnerabile. Alla vigilia del suo primo derby da allenatore il ragazzo di Ostia ha mostrato in conferenza stampa dominio delle parole e controllo delle emozioni. Semplice e diretto («Se giochi vent’anni in un posto non puoi avere solo bei ricordi». Applausi). Attento a sdrammatizzare, ma ancora più attento a non banalizzare («Il derby non ha mai conseguenze normali». Impeccabile). Ha saputo dire il giusto e mascherare il sintomo. Non fino al punto di darcela a bere. A “tradirlo” è ciò che si gonfia, che non si trattiene, sono le pulsazioni delle vene, i lampeggiamenti dello sguardo.
Il malessere
Il suo sintomo è il derby. Forse più di qualunque altro tifoso al mondo, quello romanista vive male il derby. Il derby è malessere. Lo vive come una fastidiosadissenteria.L’importante è contenere i danni e che passi in fretta. L’idea prevalente è che questa partita sarebbe meglio cancellarla dal calendario. Il derby è il sintomo del De Rossi romanista come Nadal è, era, il sintomo di Roger Federer. L’inaccettabilità della sconfitta da parte di un rivale la cui esistenza è percepita come incomprensibile, la sua vittoria un’offesa, uno scherzo della sorte, l’erroraccio di un mediocre copione scritto da un povero di spirito. Achille non dubita della sua superiorità su Ettore, ma sa del suo tallone e sa che Ettore potrà batterlo. Non gli resta che ucciderlo ogni volta. Il ragazzo di Ostia ha vissuto il derby da tutte le prospettive. Ha provato ad esorcizzarlo da bambino, da giovane e da anziano, da giocatore e da tifoso, alla tivù di casa o truccato da ultrà in curva Sud e ora da allenatore che ha appena cominciato e già gli fanno con il ditino carnefice: «Occhio che domani ti giochi tutto», tanto per non mettergli pressione. L’ha giocato in ogni modo e l’ha sempre sofferto. Nelle partire perse, quelle non giocate, quelle giocate ma come se non fossero mai state giocate («fisicamente presente in campo, in realtà assente»). Quando ha segnato gol ininfluenti e quando mister Ranieri lo sostituisce alla fine del primo tempo, lui e Totti, per palese corto circuito in atto. Maledetto derby.
L’attesa
Il giorno in cui si è vestito per l’ultima volta da romanista, sistemate le bende e le ginocchiere, chino sugli scarpini da allacciare, la cartilagine a pezzi e il mondo intero che gli cadeva addosso, il respiro che gli mancava, realizzando che era la sua ultima volta e ripetendosi che sì, «finisce qua», mentre attorno a lui erano i sessantamila dell’Olimpico i primi a non crederci. Il ragazzo con la maglia numero 16, la maglia di Roy Keane. Solo polvere d’archivio. Il bambino che non vedeva l’ora venisse domenica per raccattare i palloni e consegnarli a Giannini e a Voeller, i suoi idoli (s’era fatto cucire dalla zia il numero 9 di Rudi sulla maglia). Il ragazzo che Ostia è meglio di Copacabana. Quel giorno, forse, nella sordità del dolore un piccolo motivo di consolazione lo ha sfiorato: «Non giocherò più questi maledetti derby». Vero fino a un certo punto. Tornerà a giocarli da allenatore. Il peggio del peggio. Lo giocherà oggi. Non ci si libera del proprio sintomo. Non ci si libera del proprio destino. Non ci si libera dei derby.
L’ansia
«Delirai essendo» è l’anagramma di Daniele De Rossi, uno che ha vissuto tutto, ma proprio tutto, al massimo. Un magnifico isterico sotto la barba che non lo nasconde abbastanza, non quanto lui vorrebbe. I tatuaggi che dicono di lui, ma non dicono l’essenziale. Il suo cuore incandescente. Chissà se oggi, mezz’ora prima del fischio d’inizio, prima che la Sud e mezzo stadio lo trascini irreparabilmente nel caos, per pochi secondi, solo per pochi secondi, Daniele figlio di Alberto, maledirà di essere lì, invece che a casa con la pancia in subbuglio, ma senza la tremenda responsabilità addosso, o rimpiangerà la leggerezza di quando, Danielino, un grissino, frivoleggiava da attaccante nell’Ostiamare. Solo pochi dimenticabili secondi, una perdonabile debolezza, prima di vedere spuntare lo striscione, che nella sua testa non ha bisogno di esserci per esserci: «Danie’ caricaci ancora sulle spalle …dove il tempo non esiste!». Lo striscione forse più bello di sempre spuntato dal nulla con il suo assurdo lirismo, sotto la casa del ragazzo che resta di Ostia anche quando abita altrove, di fronte a Castel Sant’Angelo, nel cuore di Roma, all’epoca del suo addio da capitano romanista. Là dove Mastro Titta, verniciatore d’ombrelli come primo mestiere, boia a tempo perso, eseguiva con il distacco proverbiale dei romani il dovere di separare le teste dai corpi, così che l’uno non potesse più cercare la complicità dell’altro. Daniele vedrà lo striscione che non c’è e si sentirà pronto.
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