La Gazzetta dello Sport - Cagliari

TIBERI È l’uomo nuovo

- Di Alessandra Giardini BORGO VALSUGANA (TRENTO)

Lo chiamavano Nibali, eppure Antonio Tiberi era ancora un ragazzino. Che quando glielo chiedevi ti diceva che sognava di vincere la Parigi-Roubaix, come quando a 8 anni uno zio gli aveva regalato la prima bici: gialla, col cambio sul telaio. Cominciò a correre e Nibali diventò uno dei suoi modelli: Contador, Purito e Vincenzo. Finalmente lo portarono sul pavé: era uno stagista di 18 anni, fece la prima gara nelle Fiandre, la Freccia del Brabante, e capì che con le classiche era meglio lasciar perdere. Il padre Paolo aveva fatto di tutto per tenerlo lontano dalle biciclette. Ma il ciclismo gli piaceva, in casa si guardavano Giro e Tour, e Antonio cresceva: con la passione dei motori - moto e auto senza distinzion­e - ma la fissa di correre in bici. È diventato un profession­ista, Nibali se l’è trovato anche come compagno di camera.

Oggi nell’ultima tappa con partenza e arrivo a Levico Terme si gioca il Tour of the Alps: la maglia verde la indossa Juanpe Lopez, O’Connor è a 38”, Antonio terzo a 48”; con lui Poels, Bardet e Valentin Paret Peintre. Ma, soprattutt­o, a 22 anni Tiberi sta per debuttare al Giro d’Italia. «Non vedevo l’ora che ci fosse qualche tappa vicino a casa per andarla a vedere con mio padre. Fiuggi, Anagni, la carovana, i corridori. Sognavo un giorno di essere lì anch’io. Ma era come dire “da grande farò l’astronauta”: il ciclismo era un mondo completame­nte diverso da quello a cui ero abituato io, quasi irraggiung­ibile. Essere qui, adesso, è la sensazione più bella che ho da quando corro in bici».

▶Noi stiamo ancora cercando il nuovo Nibali.

«Fortunatam­ente di carattere tendo ad essere molto tranquillo, a non badare troppo a quello che si dice di me e alle pressioni che mi vengono messe. È un vantaggio. Se mi dite Nibali lo prendo come una spinta per fare bene».

Dal Mondiale juniores a crono nel 2019 alle crono del Giro.

«Quest’inverno abbiamo lavorato molto su questo fondamenta­le, siamo anche riusciti a fare il manubrio custom per me, sento la bici più familiare. Ho provato la crono di Desenzano prima di venire qui e mi è piaciuta, è veloce, penso di guadagnare qualcosa. Dopo la Liegi andrò a provare quella di Perugia».

Oropa invece?

«Mai fatta. Mai vista neanche l’impresa di Pantani».

Al Giro qual è l’obiettivo?

«Il podio nella classifica finale. Il massimo sarebbe vincere anche una tappa. Alle gare il mio obiettivo è essere migliore in generale, non il migliore degli italiani. Bisogna porsi obiettivi sempre più alti. Il mio è Pogacar. Magari non ci arriverò mai, ma lavoro per questo».

Che ciclismo è questo?

«Molto più estremo di quello di prima. Caruso mi diceva che fino a qualche anno fa in altura ogni tanto ci si prendeva un giorno di riposo e si scendeva a mangiare una bistecca, a svagare la mente. Invece adesso è diventata una gara a chi resiste di più».

Siete così anche in corsa?

«Sì, si vede anche dalle cadute. Sono sempre di più perché è tutto più estremizza­to. Da vedere è più bello, però per noi è diventato parecchio più stressante e anche un po’ più pericoloso. È sparito il cazzeggio, il godersi la bici. Adesso è diventato un lavoro».

Si sente un leader?

«Quando ho cominciato ero molto remissivo, anche in gara, cercavo di non dare fastidio, avevo quasi paura di impormi, di fare a spallate. Adesso col passare del tempo ho preso fiducia e mi viene anche da farmi rispettare di più».

È 3° in classifica e si gioca tutto nel gran finale a Levico Terme. Ha 22 anni, corre con il team Bahrain e lo paragonano allo Squalo: è il futuro delle corse a tappe. «Ora il ciclismo è sempre più estremo»

Al Giro da capitano?

«L’obiettivo sì, è partire come capitano. E Caruso come co-leader. È il mio primo Giro, sono giovane, non si può mai sapere come risponde il corpo».

Tutti parlano del Giro come se avesse già vinto Pogacar, le dà fastidio?

«L’ultima volta l’ho visto al Catalunya, eravamo lì in salita, io ero già soddisfatt­o di poterlo vedere scattare. L’obiettivo dev’essere resistere lì con lui e poi un giorno magari batterlo. Perché no?».

Che impression­e le fa?

«È sempre tranquillo, lo sarei anch’io. Sembra me da junior, ero campione toscano, l’anno che sono andato più forte avevo vinto sette gare, anch’io ero sempre sorridente e tranquillo: vincevo sempre».

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