La Gazzetta dello Sport - Romana
Perché dopo il Mundial ‘82 non siamo stati più gli stessi
ono giorni di celebrazioni e amarcord per il nostro terzo Mondiale, quello del 1982 in Spagna. Ho 55 anni e ricordo bene le partite vissute in famiglia davanti alla tv, ma non ho abbastanza dimestichezza di quello che successe fuori: nelle piazze e nel dibattito sui media.
Stefano Bradis
Sfarturi@rcs.it portofranco@rcs.it
E sono stati eventi importanti, forse più ancora di quello splendido risultato in sé, che fu sbalorditivo perché oggettivamente quella Nazionale veniva da un lungo percorso di dubbi e delusioni, avvalorati nella deludente fase di qualificazione. La trasformazione nella qualità del gioco fu istantanea dalla partita con l’Argentina in poi, simboleggiata dalla parabola di Paolo Rossi: da fantasma a uomo del destino. Ricordo di aver viaggiato nella seconda metà degli anni 80 in Brasile: quando sentivano che ero italiano, mi sparavano in faccia un «Paolo Rossi!» che era insieme un’invettiva, un rimpianto e un poco di ammirazione. Il perché di quel miracolo? Fiumi di parole sono state spese per spiegarlo. Ma il motivo principale è che il calcio è talvolta inspiegabile, vive di magie, di pazzesca imprevedibilità e si nutre di casualità. Una cosa è certa:
Gioia Mundial
avevamo una squadra di campioni, che a un certo punto sono stati capaci di esprimersi all’unisono, guidati da un tecnico come Bearzot, arroccato nelle sue idee e intriso di paternalismo protettivo nei confronti dei suoi giocatori. Qualcosa si percepisce dal documentario di Sky «ItaliaBrasile. La partita», cui assegniamo però un sei stentato. Siamo lontani dalla perfezione di «La squadra», proposta dalla stessa emittente: distillate col contagocce le immagini del campo, fastidiose e prolungate sequenze con figuranti e sosia da studio, ma comunque belle interviste, intrise di grandi sentimenti, sia sul versante brasiliano che per gli azzurri.
Che si emozionano oggi come all’epoca.
E quel Mondiale, come dicevo, diede una formidabile scossa al costume nazionale. Per diversi motivi. Il primo: lo sdoganamento del mondo della politica nei confronti dei riti dell’agonismo. La spontaneità e la gioia quasi infantile del Presidente Pertini mettevano fine a decenni di sottovalutazione di una partecipazione popolare, a lungo snobbata e denigrata nella millenaria memoria dei demagogici «circenses» di Roma antica. A ruota, con molta calma, sarebbe seguita una nuova considerazione anche da parte degli intellettuali. Il secondo: il pieno recupero del tricolore come simbolo nazionale. La gente ne sventolò a migliaia: e non consideratelo scontato, com’è oggi. Fino ad allora la nostra bandiera era largamente rimasta retaggio della destra politica con rimpianti fascistoidi. Un non senso che la festa popolare del Mundial spazzò via. Invece, perché ci rimpadronissimo del nostro inno (che gli azzurri non cantavano allora) ci sarebbero voluti ancora decenni. Terzo: l’immensa adesione della gente a quella gioia era senza divisioni, da Nord a Sud, trasversale a ogni ceto sociale, superando lo spirito di fazione, tipico del nostro Paese, nello sport e fuori. Quarto e non ultimo: le donne parteciparono come non mai alla festa, spezzando una diffidenza e un’esclusione, in particolare dal calcio, che era stata sintetizzata dal testo della canzoncina di Rita Pavone negli anni 60. Da lì molte ragazze cominciarono a capire che quel gioco era anche «per signorine». E dunque quella indimenticabile vittoria segnò una vera e propria rivoluzione nel nostro modo di essere italiani.