La Gazzetta dello Sport

«Ci consideran­o degli zombie Ma Treviso lotta»

«Tutti parlano solo dell’agonia della Benetton E non ci rispettano, però la gente ha capito»

- LUCA CHIABOTTI

Il cuore di Sasha Djordjevic sta a Milano: è dove la sua famiglia ha deciso di vivere, dove ha giocato per la prima volta lasciando Belgrado, dove ha chiuso una carriera stellare da giocatore e iniziato quella di allenatore. Ripresa la scorsa estate, a Treviso, dopo tre anni sabbatici. A Milano è arrivato l’highlight della stagione della Benetton, schierando il decimo quintetto differente in 15 gare, dopo aver perso i 4/5 dei titolari designati (5/5 consideran­do l’infortunio di Mekel), in un anno dove la squadra ha una data di scadenza dettata dalla famiglia Benetton: il 30/6/2012. Ma la Treviso dei ragazzi, degli scarti di altre società e di qualche anziano campione, a Milano ha vinto, allontanan­do la zona retrocessi­one. «Tutti mi chiedevano se ero pazzo ad affron- tare una sfida alla quale un grande nome aveva rinunciato pur avendo il contratto— dice Djordjevic —. Ho cercato di dare entusiasmo e spirito di combattime­nto riconoscib­ile a un gruppo con una gioventù pazzesca, abbiamo cambiato tutto in poco tempo, ritrovando­ci in alcune partite in sette, prendendo sul mercato chi non giocava mai altrove. Il nostro pubblico ha capito, ha compreso le difficoltà, i ragazzi danno il 100%, il gruppo è sempre stato molto unito». La cosa più difficile? «Dall’inizio della stagione tutti, in Italia e in Europa, parlano solo dell’agonia della Benetton. Siamo visti come zombie e trattati come tali. In campo non ci rispettano come altri club che hanno un futuro certo: perché dovrebbero preoccupar­si di una squadra che sta per sparire? Hodovuto spesso lamentar- mi con gli arbitri. I giovani il rispetto devono conquistar­selo ma stanno lottando anche contro questo atteggiame­nto. Intanto Enzo Lefebre e Claudio Coldebella stanno facendo un lavoro pazzesco per dare alla società il futuro che merita». Da ex stella, come si misura col talento relativo della sua squadra? «Non faccio mai confronti con me. Piuttosto mi riferisco a quella che credo fosse una mia qualità: aiutare a migliorare chi giocava con me. Non solo in campo, anche fuori: umiltà, bontà, carattere, caratterac­ci tutto può essere utile per la costruzion­e di un gruppo. Io non ho giocato sempre al fianco di stelle, ma abbiamo aiutato chi non lo era a sentirsi tale elevando le sue prestazion­i. E poi ho sempre combattuto da sfavorito: preferisco vincere contro Siena che con Siena». Dal lancio di Gallinari a De Nicolao e Cuccarolo (che interessa anche al c.t.). Solo gli stranieri hanno a cuore gli italiani? «Avete vinto l’argento under 20 con la squadra di Gentile e De Nicolao. Gli altri quanto giocano e, soprattutt­o, dove? Il tempo passa in fretta, si ritroveran­no a 24-25 anni con mezzora di gioco in serie A alle spalle, comeè successo a Gino Cuccarolo fino a oggi. O a Sandri che se non si fosse operato, sarebbe titolare: se lo era meritato. Vero, anche, che le squadre che schierano i giovani sono penalizzat­e, gli fischiano cose che ai veterani non fischiano». E’ rientrato dopo tre anni nel basket. Come si sente? «Contento, sereno e felice. Ho ritrovato la passione per il grande amore di una vita, la pallacanes­tro: non potevo permetterm­i di lasciarla morire. Si era spenta dopo tanti anni: da coach di Milano ho vissuto cose sbagliatis­sime verso l’allenatore. Avevo bisogno di allontanar­mi, di capire meglio il mondo e di crescere. Adesso sono carico come una molla». Becirovic è stato fantastico a Milano. «Nello sport c’è chi ha il talento extra. Sani è così: io godo per le cose belle, un passaggio, qualcosa che non vedi tutti i giorni. Ha un nome, ha accettato la sfida della società. La sua storia è da libro, rischiava non solo di non giocare più ma di perdere una gamba. E’ ancora qui. I ragazzi lo rispettano. L’unica cosa che gli chiedo è di non voler strafare».

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