Siamo più poveri E pure meno tonici
Impegni ravvicinati: il tema comeunacanzone evergreen
Andrea
Stramaccioni, cui non difetta il senso di responsabilità, si è accollato la colpa della tremenda prestazione dell’Inter a Firenze sostenendo di aver calcolato male il peso della gara di Europa League di tre sere prima. Fra il trionfo di Glasgow in Champions e la magra di Roma in campionato erano passate ventiquattr’ore in più, ma Antonio Conte ha spiegato l’altalena della Juve con argomenti simili: in ossequio al suo stile di primus inter pares nello spogliatoio ha responsabilizzato i giocatori ottenendo però in risposta una bugia, si sono detti pronti e mentalmente recuperati mentre non lo erano. Walter Mazzarri non ha illustrato il suo punto di vista sul deludente pareggio del Napoli con la Samp, febbricitante com’è normale che sia un uomo che a febbraio segue le partite in camicia; i suoi giocatori si sono lamentati delle condizioni del campo — in effetti irregolare come un orto a diverse colture — ma esiste una vasta letteratura sul fatto che il tecnico dubiti dell’opportunità di inseguire due traguardi. Allargando lo sguardo all’intero calcio italiano, il crollo nel ranking Uefa è dovuto assai più ai danni fatti dalle nostre squadre in Europa League che non in Champions. È vero che siamo diventati più poveri, e conseguentemente più scarsi; ma abbiamo perso anche tonicità fisica, se è vero che tre gare in sette giorni — sforzo comune a qualsiasi formazione di qualsiasi nazionalità che giochi le coppe — sono diventate un Everest insuperabile. All’inizio degli Anni 70 il calcio totale della scuola olandese, che richiedeva grandi doti podistiche, rivelò drammaticamente i nostri limiti atletici; in pochi anni però il calcio italiano seppe applicarsi (non a caso nacque in quel periodo il supercorso di Coverciano), rimontando il gap fisico a furia di allenamenti e nuove metodologie. Per intenderci: sino ad allora il calciatore si allenava dalla cintola in giù, nella convinzione che un tronco leggero regalasse l’agilità dei contropiedisti. Una volta assorbita la lezione olandese, la palestra è diventata il complemento necessario del lavoro sul campo (e ovviamente stiamo parlando al netto di qualsiasi successiva polemica su iper-preparazioni e aiuti per sostenerle), e questo per tutte le squadre e tutti gli allenatori. In più, negli Anni 90 le rose hanno cominciato a dilatarsi, passando dai 16 uomini più i migliori giovani della Primavera a liste che l’Uefa si è vista costretta a limitare a 25 giocatori, ché altrimenti si stava arrivando a 40 stipendiati. Non tutti ugualmente bravi, è logico: ma nei grandi club la differenza — poniamo — fra l’ottavo e il ventisettesimo non era poi così accentuata. Abbiamo delineato qualche breve cenno storico per dire che, fra preparazione fisica migliorata e uso del turnover, pensavamo superato per sempre il tema-alibi degli impegni ravvicinati. Invece è tornato fuori come una canzone Magari è l’effetto-Sanremo. Magari è la paura di aver costruito rose nelle quali i titolarissimi (neologismo coniato da Mazzarri, ma riguarda tutti) sono una cosa, e le riserve tutt’altra.