LA STELLA SPIETH E LA VERITÀ DEL GOLF
Jordan Spieth, il ragazzone americano figlio del nostro tempo, forgiato nelle università, tutto genio, abilità e concretezza texana, ha vinto anche lo Us Open, a dimostrazione che nel suo dna è ben radicato il gene del campione. Il secondo major stagionale arriva a soli due mesi dal Masters di Augusta. Impresa rarissima nel golf se si pensa che il precedente più vicino è quello di Tiger Woods nell’anno di grazia 2002. Jordan ora punta al Grande Slam e non potrebbe essere diversamente. Il prossimo appuntamento e a St. Andrews, in luglio, per l’Open Championship, il Major più antico. Dovesse vincere anche quello, farebbe un balzo poderoso dalla storia al mito, a 22 anni non ancora compiuti. Per il momento, però, fermiamoci qua: poiché basta e avanza. Se qualcuno cercava l’erede di Tiger, eccolo servito. Anzi di successori ce ne sono due. Rory McIlroy, numero uno al mondo e 4 major in bacheca a soli 25 anni, farebbe bene a preoccuparsi. Jordan lo incalza e non gli dà tregua. Avete presente il miglior Valentino Rossi quando dà la caccia al pilota in fuga? Ecco, più o meno così. Le due moto cominciano a toccarsi e il duello si annuncia stellare, ricco di suspence e colpi di scena. Proprio come domenica a Chambers Bay, Stato di Washington, nei pressi di Seattle. Il finale che abbiamo vissuto non l’avrebbe immaginato neppure il più fantasioso degli sceneggiatori. Chi ha avuto la fortuna di trovarsi davanti al televisore, avrà faticato a staccarsi, nonostante l’ora volgesse all’alba. Nel golf, più che in ogni altro sport, si è sempre tremendamente soli con se stessi, nella buona e nella cattiva sorte. Una lunghissima seduta di autoscienza. Le facce dei giocatori erano finestre aperte sulle loro emozioni: un turbillon di gioia e sconforto, esaltazione e depressione. Il povero Branden Grace che alla 16 spedisce sotto le rotaie del treno le speranze di vittoria; Spieth che non si fa pregare e lo stacca di due colpi e fa già festa; l’alter ego di Spieth che alla 17 rovina tutto con un doppio bogey e deve ricominciare da capo; Spieth che torna se stesso e alla 18 segna il birdie della nuova speranza, ma deve ancora vedersela con Dustin Johnson, il quale, dopo aver firmato un capolavoro alla 17, sul green della 18, a quattro metri dalla buca, si ritrova con tre possibilità: un putt per vincere, due per andare al playoff e tre per perdere. Dustin il duro si scopre vulnerabile e si suicida inciampando nella terza: chi l’avrebbe detto? Alla fine, Johnson perde e Spieth vince. E’ la legge del golf, dello sport e, in fondo, della vita stessa: gloria e sconfitta camminano su un filo sottilissimo.