TURNOVER E COPPE ISTRUZIONI PER L’USO
Con l’ingorgo delle coppe europee torna, implacabile, la roulette russa delle rotazioni (in gergo, turnover). L’impiego parziale di Paul Pogba con il Chievo, nella Juventus pre-Manchester, è stato definito tardivo. Senza, i campioni erano andati sotto. Con, hanno pareggiato. Figuratevi i riflessi su Massimiliano Allegri: pirla sabato, Pirlo della panchina martedì.
Nell’ultima stagione di Antonio Conte, quella del record di punti, fece scalpore la scelta di spremere i titolari a Reggio Emilia, contro il Sassuolo, alla vigilia della semifinale-bis di Europa League con il Benfica. Lo scudetto era in pugno, parte della critica - e del tifo - avrebbe gradito una distribuzione più oculata dei pani e dei pesci. Per la cronaca, Tevez e compagni rimontarono in bellezza il Sassuolo (3-1), ma vennero eliminati dai portoghesi: 0-0 in casa, dopo l’1-2 di Lisbona.
Al netto di infortuni e squalifiche, José Mourinho schiererebbe sempre la formazione-tipo. La penso come il vate. Il problema del turnover coinvolge gli allenatori e chiama in causa i giornalisti. Quando facevo l’inviato, un secolo fa, i calendari erano snelli e le rose sobrie. La prima Juventus di Giovanni Trapattoni, la Juventus della doppietta scudetto-Coppa Uefa, alternò non più di 15 giocatori per coprire le 42 partite in agenda: 30 di campionato e 12 in giro per l’Europa. Oggi, di solo campionato si arriva a 38. Tanto per rendere l’idea.
La necessità di rivoltare la squadra non esisteva, o comunque non era contemplata dalla struttura delle società. I ritocchi erano minimi, largo ai migliori. Nel Duemila le staffette sono diventate, più che una riffa, un’esigenza. Dipende dai dosaggi. Dipende dai risultati. E così l’attesa dell’ordalia si trasforma in un referendum: quanti cambiarne? A noi commercianti di notizie, parlo in generale, piace bivaccare attorno alle occhiaie degli allenatori con i taccuini pieni di «se» e di «ma». La caccia agli undici va sempre di moda, anche se non più ai livelli rusticani di «Azzurro tenebra», il romanzo che Giovanni Arpino dedicò al fallimento mondiale del 1974 e alle guerre tra le «iene» e le «belle gioie» del giornalismo nazional-popolare. Memorabile quel passaggio: «Il solito paraponzi da prima pagina. Tre battute ironiche per gli intenditori, due capoversi per il tifoso baluba, l’eterno dubbio tecnico cotto nel rosmarino del centrocampo. Servire bollente e gratinato in una colonna e mezza di piombo».
Nel merito: se il mister applica il turnover e perde, non ci par vero di sparare al petto. Troppi cambi, caro lei. Se viceversa il tecnico lo riduce al minimo e ne esce un pareggio sordo e grigio, quando non una sconfitta, cavoli suoi, non nostri. Pochi cambi, santo cielo.
Qui e là, si registrano casi isolati di fuoco amico. Si consigliano modiche staffette, il tecnico fa di testa sua, smonta i reparti e vince. Oppure strappa il successo trascurando l’invito di pensionare mezza rosa. Per questo, si preferisce aspettare sulla riva del fiume che passi il verdetto, e poi giù esclamativi o superlativi in base al cadavere portato dalla corrente (e dai resoconti). Vigliacchi? Coraggiosi no di certo.
Quando un turno domestico incrocia un safari europeo, propongo di decorare l’analisi di presentazione con un pacchetto di consigli per gli impieghi. In maniera da giocare ad armi pari con i tecnici. Anche se proprio pari non saranno mai, dal momento che lorsignori marcano i giocatori ogni giorno, mentre noi bene che vada li spiamo dal buco della serratura.
Io farei giocare, lui fa giocare: dopodiché, tutti a scartare il risultato. Come i cioccolatini di Forrest Gump.