La Gazzetta dello Sport

VENT’ANNI DI SCANDALI ORA SERVE UNA SVOLTA

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Il Real Madrid che nella stagione 201415 ha fatturato 578 milioni di euro è la stessa società che, il 4 dicembre, la giustizia sportiva spagnola ha escluso dalla Coppa del Re per aver schierato un giocatore squalifica­to nella partita d’andata dei sedicesimi di finale, a Cadice. Il russo Denis Cheryshev. A parziale sollievo, nessuno ha evocato i fantasmi della guerra fredda.

Al netto di questo infortunio, che tra parentesi lo riguarda di striscio, Florentino Perez passerà alla storia come uno dei peggiori presidenti in assoluto, e non solo della Casa blanca, per l’arrogante incoerenza con la quale sta sciupando la fortuna di governare una fortuna. Ciò premesso, la coincidenz­a con i vent’anni della sentenza Bosman, per casuale che sia, stuzzica l’arte dei confronti. Quindici dicembre 1995-quindici dicembre 2015: è successo di tutto, è successo troppo. Il topolino Cheryshev potrà far sorridere, vista la montagna che ha partorito, ma riassume la decadenza dell’intero egosistema (ego, in rapporto a chi comanda). Stiamo parlando del Real, non della squadretta di una bocciofila.

L’ordine nuovo sancito dal ventennio che, complice il detonatore Bosman, ha fatto esplodere il calcio, resta pericolosa­mente in balia di una classe dirigente che ha contribuit­o a tracciare confini sempre più ambigui e feroci, con esiti disastrosi per gli equilibri che avevano spinto realtà come il Verona e la Samp ad arrampicar­si fino allo scudetto.

Non che prima la corruzione o la cialtroner­ia fossero argomenti marginali, tutt’altro. Non v’è dubbio però che il liberismo selvaggio provocato dalla miccia belga abbia agevolato la resa incondizio­nata dei valori di fronte ai prezzi. Bosman aveva le sue ragioni, e il regime i suoi torti, le sue pigrizie. La fitta serie di scandali che ha solcato le età del calcio da quell’inverno a questo conferma la decadenza di un mondo che ha chiuso troppi occhi, dalle segreterie alle cupole.

Passaporto­poli, doping, bilanciopo­li, calciopoli, scommessop­oli, Fifagate, con gli sceriffi dell’Fbi protagonis­ti di un repulisti dagli effetti devastanti. In bilico - e a rischio radiazione, addirittur­a - Blatter e Platini, il presidente della Fifa e il presidente dell’Uefa: colui che avrebbe voluto essere il calcio e colui che vorrebbe cambiarlo.

Non più regolati, i mercati regolano. Con l’avvento di Silvio Berlusconi, Rupert Murdoch e la moltiplica­zione dei diritti tv siamo entrati nel tunnel di un «darwinismo sociale» in base al quale il concetto di «struggle for life», lotta per la vita, è assurto a bandiera e cesura del villaggio globale. In Italia, soprattutt­o. I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. L’irruzione degli sceicchi ha alterato la mappa dei titoli, grazie anche al lascito bosmaniano di «finestre» così generose per cui, in pratica, i giocatori sono trattabili tutto l’anno e i loro procurator­i sono i nuovi padroni.

Grande sfida, grande guida: ecco cosa manca. Per avere giustizia, Jean-Marc Bosman dovette uscire dai recinti istituzion­ali. I controllor­i non possono essere scelti tra i controllat­i, come ha ricordato su queste colonne Franco Arturi. Serve una svolta radicale: dal Cio alla Fifa, lo sport deve evadere dalla sua neutralità che puzza tanto, troppo, di opportunis­mo. Urgono sentinelle esterne (ed estranee) al castello. Brutto segno, quando l’etica diventa etichetta, e ognuno trascina il suo codice come un bagaglio a mano: significa che l’ufficio facciate l’ha vinta sull’ufficio facce, caro a Beppe Viola. Dirigenti cercansi. Tocca al 2016 scovarli: non sarà facile.

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