GRAZIE, BELARDINELLI GURU DELLA DAVIS
Quarantennale della vittoria italiana della coppa Davis 1976 in Cile, parte seconda. Comincio con delle doverose scuse ai lettori: nella precedente puntata di Porto Franco sono incorso in un lapsus gigante: ho confuso il nome del carnefice, il generale golpista Augusto Pinochet, con quello della sua vittima (purtroppo la più illustre di molte migliaia), il presidente democraticamente eletto, Salvador Allende. Me l’hanno fatto giustamente notare in molti, via mail e Twitter. Il numero degli interventi è stato così alto da indurmi a ritenere che l’argomento interessi tanti. E quindi ne scrivo ancora, dando per scontata la lettura della bella intervista a Nicola Pietrangeli di Riccardo Crivelli e dell’intervento di Paolo Bertolucci, usciti sulla Gazzetta di venerdì.
Parto dai quattro moschettieri, cioè dai giocatori. Un mix di straordinaria omogeneità. Adriano Panatta, arrivato a essere in quel magico anno (per lui anche le vittorie di Roma e Parigi) numero 4 del mondo, era un terraiolo con grandi colpi d’attacco; capivi com’era la giornata se entrava il passante di rovescio. Atleticamente era sempre alla rincorsa di un se stesso ipotetico: in realtà non aveva un fisico perfetto. E in più la voglia di soffrire non era certo quella di un Borg, ma la cosa non lo disturbava allora e ancor meno lo disturba adesso. Avrebbe potuto vincere molto di più in carriera dei 10 tornei conquistati in singolare, ma gli è andata di lusso considerando che, 1976 ed estate 1973 a parte, non è mai stato nei primi 10 e spesso è uscito dai 20 del ranking. Quanto a Paolo Bertolucci, giocatore di grande intelligenza e lucidità tecnica (come i suoi interventi da opinionista confermano in questi anni), aveva limiti atletici ancor più marcati. Si fosse giocato da fermo o quasi, sarebbe stato un campione del mondo, perché i suoi colpi da «braccio d’oro» erano stilisticamente perfetti: in carriera non è stato comunque solo il compagno ideale di doppio di Adriano. Corrado Barazzutti aveva un coraggio e una resistenza al limite dello stakanovismo; senza possedere il talento dei due compagni, le sue doti da regolarista gli consentirono di arrampicarsi fino al numero 7 del mondo. Tonino Zugarelli, infine, sarebbe stato in altra squadra più di una riserva, ma il suo apporto fu decisivo a Wimbledon, quando portò due punti per eliminare l’Inghilterra sull’erba, dove le sue caratteristiche di attaccante venivano valorizzate.
Molto opportunamente Bertolucci ha ricordato sulla Gazzetta i meriti di chi aveva forgiato tutti e quattro i giocatori, cioè Mario Belardinelli: il direttore del centro federale di Formia era un vero e proprio guru e punto di riferimento, di sport e di vita. Mille le sfaccettature del più grande tecnico che il tennis italiano abbia mai avuto. Fra i suoi allievi, fra il ’39 e il ’42, c’era stato anche Benito Mussolini, sul suo campo privato a Villa Torlonia. Ma il talento tennistico del Duce era meno di zero: a lui interessava soltanto essere immortalato col petto nudo mentre mostrava vitalità giovanile. Ho ricordi personali di Belardinelli. Per esempio di quando, nella seconda metà degli anni 70, lo incontravo sui campi di qualche importante torneo giovanile. E lui, con infinita pazienza, non disdegnava di dare lezioni di tennis a me, cronistello quasi alle prime armi. Era l’epoca della rivoluzione degli «arrotini» Borg, Vilas e tanti compagni. Lui mi disse profeticamente: «Impossibile che a questi ritmi un campione regga più di dieci anni ad alto livello». Una regola, stagione in più, stagione in meno, che funziona molto, molto spesso: esercitatevi sui nomi dei campioni degli ultimi 40 anni. Folgorante la definizione di talento che mi diede: la capacità di mettere la palla dove vuoi. Con piccoli aggiustamenti, vale anche in tutti gli sport con la palla.