Froome
«LA MIA VITA È MIGLIORE DA QUANDO SONO PAPÀ»
D imenticate il Chris Froome — un po’ nervoso e un po’ scontroso, forse anche per colpa anche delle “gabbie” di Sky — che vedete alle corse. Quello con cui viaggiamo dall’aeroporto di Venezia a Maser, sede della Sidi, un’ora circa di auto con Antonio Rossetto alla guida, è il vero Chris Froome: educato, gentile, simpatico, disponibile. Così confrontarsi con lui diventa un piacere e un privilegio. «Già tra parlare e stare zitto io preferisco la seconda scelta — spiega col sorriso il tre volte re del Tour —. Poi alle corse sono teso, concentrato. Penso a tutto quello che devo fare per provare a vincere. In più ci sono mille persone attorno e in pochi secondi non è facile che si crei feeling. E ci dovete anche capire: noi siamo corridori, non abbiamo la stessa facilità di espressione di voi giornalisti».
Chris, suo figlio Kellan ha appena compiuto un anno. Come si trova nel ruolo di padre?
«Straordinariamente bene. Mio figlio m’ha cambiato la vita, ma in meglio. Mi ha dato più tranquillità, ora quando sono a casa…sono a casa. Michelle è una bravissima madre, molto attenta. Lui dorme dalle 7 di sera alla 7 di mattino. Siamo fortunati».
Il suo programma agonistico?
«Il 10 gennaio vado in Australia e starò lì fino alla prima settimana di febbraio. Correrò Down Under e Cadel Evans Gre- at Ocean Race, poi andrò in altura in Sudafrica per tre settimane. Rientrerò al Catalogna, quindi Romandia, Delfinato e Tour. Un programma a me ormai familiare».
Le piace il percorso del prossimo Tour?
«Diciamo che è un Tour molto diverso dal solito. Ci sono soltanto tre arrivi in salita, di cui uno solo duro e lungo. Ci si giocherà il tutto per tutto in quell’unico giorno, anche perché ci sono pochi chilometri a cronometro. Ne verrà fuori una corsa più aperta e forse questo è un bene per lo spettacolo».
Lei in Francia ha un ruolino di marcia eccezionale: 2° nel 2012 nel trionfo di Wiggins, maglia gialla nel 2013, 2015 e 2016. Unico neo il 2014 con la caduta e il ritiro. Le pesa quel buco?
«Non guardo mai indietro. Poi le cadute fanno parte delle corse. Anche se sei il migliore, il più in forma, non è detto che vinci una corsa. Comunque quell’anno Vincenzo (Nibali, ndr) era forte e ha vinto».
Tour significa anche Ventoux, la moto che vi fa cadere e quella pazzesca corsa a piedi in maglia gialla. Che ricordo ha?
«Adesso posso ridere, ma in quel momento è stato un casino. Stavo pensando a come giocarmi la vittoria quando con Mollema e Porte ci siamo trovati a terra. Ho visto che la bici era inservibile e sapevo che l’ammiraglia era lontana, sono partito di corsa. E non sono neppure scivolato...». Sorride.
Sulle strade della Boucle lei spesso è stato maltratto, umilia- to dai tifosi. Non ha mai pensato di dire basta?
«Ci sono stati momenti che mi hanno deluso. Quello non fa parte del nostro sport, non è nel dna del ciclismo. Anzi, nel ciclismo non c’è proprio spazio per quella gente».
Un’altra immagine forte del 2016 è legata al Giro, con i genitori di Chaves che abbracciano Nibali che ha appena strappato la maglia rosa al figlio.
«Bellissima, da incorniciare. Quello è il senso del ciclismo».
Possiamo mettere in ordine di pericolosità i suoi rivali?
«Quintana in salita mi fa soffrire molto. Contador è difficile da affrontare perché imprevedibile. Può ancora vincere? Penso di sì, ha testa, esperienza e motivazione. Il cambio di team gli farà bene. Poi c’è Bardet che cresce e Porte, di cui si parla poco, ma che è uno degli scalatori più forti al mondo».
Nibali e Aru?
«Con Vincenzo è da tanto che non ho un testa a testa. Aru quest’anno non ha avuto una stagione facile e al Tour ha sofferto...»
Che cosa pensa di Chaves?
«È un giovane che ha già fatto vedere a tutti che può essere competitivo. I podi al Giro e alla Vuelta sono una conferma. Sta crescendo».
Chris fino dove vuole arrivare?
«Voglio correre altri 5-6 anni ad alti livelli. Sono arrivato tardi al ciclismo, posso restare ai vertici più a lungo. Ho solo 9 stagioni da pro’ nelle gambe, mi sento ancora giovane. Finché non sarò fisicamente distrutto, e avrò motivazioni, andrò avanti. Per me fino a 18 anni la bici era sole, divertimento, libertà... È stata la mia fortuna».
Quindi pensa che l’attività giovanile come è concepita oggi sia sbagliata?
«Al cento per cento. I giovani sono troppo stressati, invece che divertirsi sono già dei pro’. Poi quando passano non riescono a fare il necessario salto di qualità».
Ha mai pensato di puntare a una classica?
«Difficile. Le gare a tappe, con la fatica che s’accumula giorno per giorno, sono più adatte a me. Nella giornata singola io non riesco a dare tutto come altri».
Quindi il recupero è la sua dote migliore.
«Non è solo questione di doti naturali. Conta molto, o forse di più, il metodo d’allenamento. Io mi alleno tutti i giorni in modo feroce. Tanti colleghi che escono con me dicono che non hanno mai visto uno prepararsi così. Ogni giorno mi alleno tanto e forte. Non è facile, anzi a volte è di una durezza tremenda, ma è quello che fa la differenza tra la vittoria e il podio».
Qual è l’allenamento preferito? E quello che gradisce meno?
«Quello che mi piace di meno è con la bici da crono: c’è da soffrire così tanto che a volte non so neppure io come faccio a sopportarlo. La posizione è scomoda, la schiena fa male, il sedere pure. È tutto incredibilmente molto difficile. La salita, invece, specie se fatta senza lavori specifici, mi piace da morire: mi guardo attorno, vivo la natura e me la godo. La mia salita preferita? Il Col de Turini (non lontano da Mentone, ndr)».
E la salita su cui ha sofferto di più?
«Lo Zoncolan al Giro e l’Angliru alla Vuelta: sono muri. Eccessivi».
Ma hanno un senso salite così dure in una corsa a tappe?
« Alla gente piacciono, ma credo che ci sia poco spettacolo perché c’è poca tattica. Vai a 7-8 all’ora, a stare a ruota non risparmi nulla. Sono come cronoscalate, solo una questione fisica».