La Gazzetta dello Sport

COME SALVARE LA COPPA ITALIA

- di ROBERTO BECCANTINI

Lasciamo perdere la Serie A a diciotto squadre. Carlo Tavecchio l’ha definita un’utopia. Proprio lui che, in campagna elettorale e subito dopo l’elezione a presidente (11 agosto 2014), l’aveva collocata al vertice del programma. Il fuoco amico delle Leghe incalza: deve dimettersi la riforma, non Tavecchio.

Parliamo, piuttosto, di Coppa Italia. Gennaio ne accompagna il laborioso disgelo. Entrano in scena le grandi, «Che cos’è? C’è nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è» (Sergio Endrigo, «Lontano dagli occhi»). È la formula. Gian Piero Gasperini ci è tornato sopra dopo il croccante ottavo di Torino, con la Juventus: «La gente non ha l’anello al naso, avverte la sensazione che si vogliano scortare le squadre più forti. Non è un bello spot per il nostro calcio».

Certo che non lo è. E non è neppure una novità. La discussion­e si trascina da anni. Ha ragione, l’allenatore dell’Atalanta. Il popolo è stufo. Quando si affrontano squadre di categorie differenti, perché non giocare sul campo di quella della categoria inferiore? E quando appartengo­no alla stessa, perché non concedere il vantaggio ambientale alla società con la peggior classifica nella stagione precedente, oppure ricorrere, per decenza, almeno al sorteggio?

Invece no. Sempre e comunque calendari blindati. Tranne le semifinali, previste, in base al «decreto» salva-Rai, con il meccanismo dell’andata e ritorno. È già tanto che, dal 2008, si disputi una finale secca allo stadio Olimpico di Roma: non proprio il nostro Wembley, visto che vi abitano Lazio e Roma, ma comunque un passo avanti, un cerotto per medicare i graffi che il pudore di copiare gli altri procura, spesso, alla tradizione. Magari li copiassimo di più.

Come lo stadio di proprietà, che la maggior parte dei dirigenti traduce in centro commercial­e con impianto annesso, la Coppa Italia, più ancora del campionato, incarna e riassume l’indole del Paese. Nacque per caso, sulle ceneri di uno scisma, venne abbandonat­a e ripresa, in pianta stabile, solo dal 1958. È un trofeo che decora l’albo d’oro, sì, ma è diventato soprattutt­o un carro attrezzi: non sia mai che, giocando nella tana del più debole, il più forte fori ed esca di strada.

Si chiamano privilegi, che il blasone non giustifica e lo spirito sportivo dovrebbe ridurre. Credo che sia anche una questione di cultura. In Inghilterr­a, la prima edizione della Coppa risale al 1872, addirittur­a, mentre il battesimo del campionato «soltanto» al 1888-89. Sedici anni di distacco a beneficio del «little tin idol», il piccolo idolo di stagno che avrebbe invaso la cronaca trasforman­dola in mito, dai Wanderers e i 2000 spettatori del Kennington Oval al Manchester United e gli 88.619 paganti di Wembley.

Simone Cola, blogger toscano, ne ha raccontato la romanzesca genesi in un libro che consiglio ai cacciatori di ricordi, «Pionieri del football, storie di calcio vittoriano dal 1863 al 1889», editore Urbone Publishing. Quei baffi a manubrio, quelle zuffe in nome di un’idea che fissò un confine netto, voi rugby noi calcio, voi mani noi piedi.

Poi, è chiaro, di fronte a una «bella» tra Juventus e Milan, come capitò il 21 maggio 2016, tutto (o molto) passa in secondo piano. Le gerarchie saziano, la rivalità stimola. Non si pensa più alle immunità con le quali si è arrivati all’epilogo, e nemmeno al miracolo dell’Alessandri­a, che dalla Lega Pro si arrampicò fino alla semifinale. Si brinda, se mai, al pericolo scampato di un’Alessandri­a in finale.

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