«SUL PALCO TI SENTI RIGORISTA TOTTI IL TOP GLI DEDICO “VOLARE”»
E’una mattina calda e pigra sui Navigli. Il cortile interno dell’hotel color pastello profuma di fiori e primavera, un’atmosfera senza tempo, manca solo Alice che guarda i gatti, ideale per un incontro con Francesco De Gregori. Giubbotto di pelle, berrettino nero, aria rilassata, il cantautore giallorosso ci racconta i retroscena del doppio album live Sotto il vulcano, registrato al teatro greco di Taormina nel corso del suo Amore e furto
Tour, un mix di successi con sonorità nuove, a partire dall’intramontabile Rimmel.
Quali sono le sue sensazioni nel rivisitare brani apprezzati anche dai giovani?
« Gioia e soddisfazioni non comuni. E’ come se scoprissi che c’è più musica di quella che pensavo. Una volta ero più tranchant negli arrangiamenti, adesso invece le canzoni si aprono, mi diverto a cambiarle».
«Rimmel», la fine di una storia, il trucco e i quattro assi di un colore solo, nel ’75 fu rivoluzionaria: dove la scrisse?
«In due tempi. Le strofe in una stanza d’albergo a Milano. Anche l’inciso l’ho scritto a Milano: ero in attesa di andare in onda negli studi Rai di porta Carlo Magno a una trasmissione per bambini presentata dal mago Zurlì, Cino Tortorella, non sapevo che cosa fare ed è arrivato il ritornello».
Ma è vero che «Sotto il vulcano», il cui titolo prende spunto dall’Etna, è stato registrato a sua insaputa?
«Sì. Due, tre giorni prima della serata di Taormina dissi al bassista, Guido Guglielminetti: “Peccato che non abbiamo mai tenuto nulla, così, per risentirci...”. Lui, zitto zitto, ha chiamato una troupe tecnica e soltanto qualche giorno dopo abbiamo saputo che aveva registrato tutto. Meglio, c’è sempre un minimo di ansia quando sai di essere ripreso».
Lei e Lucio Dalla, i primi a esibirsi negli stadi con «Banana Republic» nel 1979: che effetto faceva?
«Eravamo ragazzini entusiasti. Avevamo approcci diversi: lui era più musicista e scafato. Ci accomunava lo stupore, tutta quella gente per noi. Non cambiò il modo di vedere il nostro mestiere, rimanemmo con i piedi per terra, eravamo convinti che fosse una parentesi».
Nell’album, oltre a «4 marzo 1943», c’è anche la «Leva calcistica della classe ’ 68» con il mitico Nino e la paura del calcio di rigore: com’era nata?
« Ripensando me da ragazzino, all’iniziazione e alla crescita in un gioco di squadra: tutti ci tengono a fare bella figura. C’è competizione, a volte sofferenza e amarezza».
E’ vero che l’aveva dedicata ad Agostino Di Bartolomei?
«No, è falso».
Lei li sbagliava i calci di rigore?
«Sì, certo. Ma all’inizio giocavo in porta perché ero alto e intervenivo sui cross – ride – sapevo fare solo quello. La canzone è stata scritta dalla parte del portiere, ho rovesciato la visione».
Che tifoso è?
« Caldo, come tutti, ma non competente. Se volete parlare di schemi chiedete pure ad Antonello Venditti. Anche Barbarossa, Ruggeri e Ligabue sono più bravi di me. Io sono uno spettatore – ridacchia – e vorrei veder piangere il mio capoufficio stampa Vitanza, che è juventino...».
IL NOBEL A DYLAN È GIUSTO. UNA CANZONE È LETTERATURA FRANCESCO DE GREGORI SULL’ARTISTA AMERICANO L’ATALANTA? SPERO CHE I GIOVANI DOMANI SI SENTANO PIÙ VECCHI FRANCESCO DE GREGORI SUGLI AVVERSARI DELLA ROMA