La Gazzetta dello Sport

«CARO GIANNI COME TI VENNE IN MENTE DI... INSEGUIRMI?»

- di NICOLA CECERE

IO E RIVERA SIAMO STATI RIVALI SOLTANTO AL MONDIALE 1970 IN MESSICO LA STORICA STAFFETTA LUI ERA ELEGANTE MA UNA VOLTA MI ASSESTÒ UNA BELLA PEDATA... LA STRACITTAD­INA DUELLI TRA LEADER

C

aro Sandro Mazzola, se la ricorda questa immagine di lei inseguito niente meno che da Gianni Rivera?

«Eh sì, la porto stampata nella memoria. Una rarità assoluta, un pezzo da museo...».

Lo aveva fatto arrabbiare?

«Ma no, ma no. Mi sa che la partita era appena iniziata, forse voleva scaldarsi».

Ricorda pure se la raggiunse?

«Difficile, ero in vantaggio, lanciato... E poi lui era abituato a essere lepre, non cacciatore. Ricordo perfettame­nte, però, che una volta mi raggiunse con una bella pedata... Stavamo sotto la tribuna nella metà campo opposta alla Nord. Il mio cervello prima del dolore della botta registrò la meraviglia: Gianni che fa un’entratacci­a?! Se ne scusò subito».

Le principali qualità che gli riconoscev­a?

«L’intelligen­za, anzitutto: riusciva a pensare lo sviluppo dell’azione prima di tutti. La classe immensa in ogni gesto tecnico. La capacità di essere sia rifini- tore che finalizzat­ore, quindi un po’ geniale centrocamp­ista e un po’ eccellente goleador ma anche uomo squadra».

Primo Pallone d’oro italico. Gliel’ha invidiato quel premio?

«No in quanto meritatiss­imo. Ho però stramalede­tto, due anni dopo, quel giudice italiano, un cronista della Gazzetta mi dissero, che assegnò a Cruijff il voto in più che lo fece prevalere su Mazzola. Pensavo proprio di essermelo meritato».

Rivera aveva un punto debole?

«Il Mago pensava di poterlo limitare con la marcatura a uomo. Il sacrificat­o di solito era Bedin. “Oh, devi stargli attaccato” gli diceva Herrera. E Bedo lo seguiva dappertutt­o. Una volta Rocco a gioco fermo chiamò sotto la panchina il suo capitano e il mio compagno si piazzò tra i due finché Rocco non lo mandò a quel paese. In veneto, dialetto che Gianfranco ben comprendev­a...».

Il derby indimentic­abile di Sandro Mazzola è...

«Il primo. Avevo vent’anni e mi capitò di fare gol dopo 13 secondi. Record ancora imbattuto. Toccarono il pallone Suarez, Corso, Di Giacomo e poi arrivai io lanciato e solo soletto. Herre-

ra mi aveva detto che sarei stato marcato da Trapattoni, ma Giovanni tentò di arginarmi quando ero già in area. Il portiere era un grande ex, Giorgio Ghezzi, idolo del mio periodo tra i pulcini quando lui difendeva la porta interista. Dopo il match, che terminò 1-1, Ghezzi negli spogliatoi venne a dirmi che mi era riuscito di fargli gol solo perché avevo calciato male. E aveva ragione! In effetti volevo tirare in diagonale ma il pallone si sollevò mentre lo calciavo e mi uscì una conclusion­e sul primo palo mentre lui si era preparato al tuffo dall’altra parte».

Fu il derby del rigore «regalatovi» da Lo Bello?

«Sì, sì. Lo calciò Suarez, sul palo, dopo infinite discussion­i. Trapattoni mi mette giù al limite dell’area: dentro o fuori? I milanisti giuravano fuori, io ero caduto dentro, Lo Bello si trovava distante e cercava conforto nel guardaline­e che si guardava bene dall’intervenir­e... Al che, conoscendo la personalit­à di quell’arbitro siciliano i miei compagni seppero trovare le parole giuste per trascinarl­o sul dischetto. Perciò si scrisse che quel rigore non era mai stato fischiato».

Mazzola e Rivera potevano sedersi a un bar assieme?

«E’ successo. E più di una volta. Frequentav­amo lo stesso posto, una bella trattoria sui Navigli con i tavolini all’aperto. La gente passava e si dava di gomito, i più intraprend­enti ti dicevano qualcosa. Mai niente di offensivo. Capitava di mangiare assieme anche dopo le prime riunioni del sindacato».

Quindi la vostra rivalità esplose in realtà soltanto in Nazionale?

«Esclusivam­ente a Messico ‘70, però. Prima e dopo siamo stati buoni compagni in azzurro e anche durante quel Mondiale entrambi eravamo convinti di dover giocare assieme. Ce lo dicevamo incontrand­oci di nascosto: c’erano giornalist­i e fotografi dappertutt­o».

Il c.t. Ferruccio Valcareggi insomma vi sorprese con quella staffetta ideata per l’evento?

«C’è da dire che io arrivai in Messico per niente sicuro di avere un posto tra gli undici. Me lo guadagnai in un’amichevole col Toluca grazie all’esperienza fatta l’anno prima in una tournée interista. Lì avevo capito che a 2.200 metri se piantavi uno scatto di trenta metri poi rimanevi due minuti senza ossigeno... Dovevi giocare di tocco evitando gli sforzi prolungati».

Nel secondo tempo però arrivava il cambio con Gianni.

«Me lo aspettavo pure nella finale col Brasile. All’intervallo cominciai a slacciarmi le scar- pette ma l’allenatore mi vide e urlò “Mazzola, cosa sta facendo! Lei deve giocare ancora!” Così quando a 6’ dalla fine vidi che si preparava il cambio con Rivera andai sotto la panchina ed esplosi: “Io non esco: siamo nella m... tutti e non intendo togliermel­a di dosso, resto con gli altri”. Valcareggi richiamò Boninsegna».

Lei è stato in più riprese dirigente dell’Inter, ma non ha fatto l’allenatore: come mai?

«Finito di giocare mi dedicai al vivaio, diedi la caparra per comprare il centro sportivo di Interello e mi prodigai per tenere sotto controllo i bambini. Capii che ero più portato per un ruolo tecnico da dirigente».

Il Moratti-bis l’ha vista d.s. fino al 1999: quanto le è dispiaciut­o lasciare prima che l’Inter replicasse i vostri successi?

«Ho sofferto tantissimo, un dolore atroce. Ma non ho mai voluto parlarne con Massimo, probabilme­nte fu costretto a comportars­i così e in ogni caso non gli potrei mai portare rancore. Ci siamo conosciuti da ragazzi e l’Inter di suo padre è stata la mia seconda famiglia: eh, il commendato­re... Figura straordina­ria».

Al posto di Moratti e Rizzoli ci sono adesso mister Zhang e mister Li: che ne pensa?

«Il mondo cambia in fretta, non lo puoi cristalliz­zare. La via della Cina la inaugurai proprio io da dirigente con una tournée... A Crotone abbiamo toccato il fondo? Ottimo auspicio: passano i giocatori, le generazion­i, i tecnici, i dirigenti. Ma nel nostro DNA, come se provenisse dalla maglietta, resta questo strano destino: quando siamo a terra riusciamo a dare il massimo specialmen­te nel derby; quando siamo al massimo, spesso diamo il minimo».

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