DOPO JUVE-BARÇA SERIE A RIVALUTATA
Qual è il valore tecnico della serie A? Questa domanda provoca in genere una reazione sofferta, un mix di rimpianto per i bei tempi andati (e da tanto...) e di invidia per i campionati stranieri, così ricchi di campioni e di glamour. La dittatura ormai consolidata della Juventus da una parte e la straziante povertà della zona salvezza dall’altra ci convincono di assistere a un torneo minore, una palestra tattica - questo sì, altrimenti non si spiegherebbero i trionfi degli allenatori italiani all’estero - dalla quale ogni tanto emerge un talento (Thiago Silva, Cavani, Pogba, sarebbe bello aggiungere Verratti ma lui la serie A non l’ha mai vista) inevitabilmente destinato ai campionati più abbienti.
Poi però succede che nei quarti di Champions la Juve batta il Barcellona in un modo che andrebbe definito agevole, se solo non si dovesse rispetto al club-guida della modernità. C’è ancora il ritorno e la prudenza non è mai troppa, ma il 3-0 di martedì resterà in ogni caso esemplare di cosa possa accadere fra la migliore delle nostre squadre e l’avversaria più celebrata che esista. Ecco, fermiamoci qui: se nella sera giusta il valore della Juve può rivelarsi così superiore a quello del Barça, come dobbiamo considerare la Roma, che da mesi tiene vivo il campionato costringendo i rivali a non alzare mai la testa dal manubrio? Pur concedendo che le competizioni sono diverse, e di conseguenza lo sono gli approcci ai match, la Roma allo Stadium ha perso soltanto 1-0, lo scorso dicembre, e dopo aver dato la sensazione di non essersi giocata fino in fondo le proprie possibilità. E se la Roma è distante sei punti - tre dei quali riguardanti appunto lo scontro diretto, che deve ancora avere la sua replica all’Olimpico -, quanto vale il Napoli che insegue sì a dieci, ma nella stagione in cui si è dovuto ricalibrare senza Higuain, passato proprio alla Juve?
Sono domande prive di una risposta certificabile, perché nel calcio non è detto che se A batte Be B batte C, C non sia poi in grado di battere A. I dubbi sorti dopo Juve-Barça, però, dovrebbero almeno toglierci dalla faccia l’espressione schifata quando si discute della qualità della serie A. Okay, la parte destra della classifica è la peggiore di sempre, e del resto la richiesta generale di scendere a 18 squadre non nasce dal nulla; ma delle dieci formazioni che abitano la parte sinistra, sette stanno facendo meglio (a volte molto meglio, come Atalanta e Lazio) dell’anno scorso, due sono in pari e la sola Fiorentina ha un bilancio peggiore. Tecnicamente la serie A ha ripreso a crescere, e dunque a competere con gli altri tornei.
Perché, allora, oltre la Juve nessuna italiana è arrivata ai quarti delle coppe? Detto che il Napoli la sua figura l’ha fatta, perché uscire dignitosamente da un ottavo col Real Madrid dopo aver vinto il proprio girone è un risultato apprezzabile, si ritorna alla Roma, capace di insidiare sulla lunga distanza una candidata alla Champions come la Juve, ma non di passare il preliminare col Porto o, scesa in Europa League, di scavalcare l’ostacolo Lione. L’essenza del discorso di Spalletti - «se non vinco qualcosa me ne vado» - è tutta qui, nell’esigenza di superare un’incoerenza evidente. O forse uno scalino che nessun sillogismo riesce ad appiattire, perché la sensazione che l’ultimo step sia uguale a quelli già saliti è un’illusione ottica, la differenza tra il primo e il secondo posto è simile a quella fra il secondo e il decimo. Ultimamente è il linguaggio del corpo a rivelare la stanchezza di Spalletti nel ripetere sempre lo stesso concetto, alla squadra prima che all’ambiente. Può darsi allora che l’ultimo espediente da utilizzare sia proprio il 3-0 della Juve al Barça, il risultato enorme ottenuto dalla grande rivale: ma se lei vale tanto e io le resto in scia, valgo qualcosa anch’io. E allargando il discorso, vale anche un campionato che è di moda disprezzare.