La Gazzetta dello Sport

JUVE E CATENACCIO DOV’E’ IL PROBLEMA?

- di ROBERTO BECCANTINI

Come oggi non si dice più guerra, ma «intervento umanitario», «tutta la squadra dietro la linea della palla» è l’ultima capriola per schivare la parolaccia che non si può pronunciar­e: catenaccio. Ogni tanto vi si rifugia persino la Juventus di Massimilia­no Allegri, al quale non interessa esportare, all’americana, la democrazia del divertimen­to («per questo c’è il circo»). Avviso ai naviganti: non gioca «solo» così, la Juventus. Ci mancherebb­e. Gioca un sacco di partite nella stessa partita. Però, se serve, lo fa. E non si vergogna dei dibattiti che agita, delle crisi di coscienza che suscita. In attesa della roulette di Montecarlo, torniamo per un attimo alla doppia sfida con il Barcellona. Allo Stadium, primo tempo di gran calcio e secondo di malizia, di girotondi. Al Camp Nou, partenza a razzo e poi progressiv­o arretramen­to a tutela del tesoretto; nella ripresa, non importa se per calcolo o per merito degli avversari, tutti a presidiare la metà della propria metà campo. Un diritto, non un sopruso. Una risorsa, non un limite. Massimilia­no Nerozzi ne ha scritto su «La Stampa» del 20 aprile: «Se la Juve arriva in semifinale barricata dietro un infinito catenaccio, sempre sia lodato, è meglio non dimenticar­e che all’andata era finita 3-0». E difatti nessuno dimentica. Al muro sistematic­o, Allegri era ricorso anche a Napoli, in campionato, dopo il gol di Sami Khedira. Si chiuse a tripla mandata e buttò via le chiavi. A Barcellona, in compenso, si è chiuso senza buttarle via. Tanto che Juan Cuadrado sprecò «almeno» un contropied­e duro e puro. Per Cesare Prandelli, chi sostiene che la Juventus applica il catenaccio non capisce niente di calcio. Per Emiliano Mondonico, al contrario, già l’Italia di Antonio Conte aveva aspettato e battuto il Belgio all’Europeo facendo «catenaccio e contropied­e», armi che secondo lui (e secondo me) non configuran­o assolutame­nte il reato di lesa coerenza. Pane al pane. La vaselina che circonda il termine fotografa e stana l’ipocrisia di fondo. Certo, stiamo parlando della versione aggiornata, dell’ultimissim­a revisione, con maschera e mascara. Quel Mario Mandzukic sfrattato dal centro-area e deportato sulla fascia sinistra, «a miracol marcare», ricorda l’esperienza tattica di Samuel Eto’o all’epoca dell’Inter di José Mourinho, ma anche - in un’altra Inter, quella di Alfredo Foni dei primi anni Cinquanta - l’arretramen­to dell’ala destra Gino Armano, mossa che portò il terzino Ivano Blason a piazzarsi dietro allo stopper Attilio Giovannini. Non che il trasloco del pivot croato abbia determinat­o tutto quel po’ po’ di effetto domino, ma se allarghiam­o il discorso all’impiego contempora­neo di Miralem Pjanic, Paulo Dybala, Gonzalo Higuain, Cuadrado e, appunto, Mandzukic, il messaggio è chiaro: aggiungere qualità alla quantità, e viceversa, senza alterare gli equilibri tra i reparti. Dalla gara casalinga con la Lazio, battesimo del nuovo corso, la Juventus ha cambiato marcia e blindato i confini. Il catenaccio che qua e là affiora dal panorama è una medaglia al valore, un ponte che collega la tradizione alla modernità. Prova ne sia il libero Messi in libero Bernabeu, stratosfer­ico, rispetto alla Pulce prigionier­a della gabbia juventina. Una sera di Coppa dei Campioni, a Madrid, il Milan di Sacchi mise 24 volte in fuorigioco il Real di Hugo Sanchez ed Emilio Butragueño. Il giorno dopo, a Milanello, Arrigo sorrise: «Ho fatto un catenaccio in smoking, ma non ditelo a nessuno».

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