La Gazzetta dello Sport

I LIMITI DELL’UOMO TUTTO È RELATIVO

- di FAUSTO NARDUCCI ARDUCCI email: fnarducci@rcs.cs.it twitter: @Ammapp1 1

Forse è una coincidenz­a, più probabilme­nte un segno dei tempi. Ma è chiaro che il concetto di «recordismo» nell’atletica non è mai stato così dibattuto come in questa settimana. Da una parte la proposta della federazion­e europea di creare una sorta di «Hall of Fame» dei primatisti del passato per ricomincia­re daccapo; dall’altra il tentativo (fallito per 25”) di abbattere il muro delle due ore in maratona che si è consumato ieri all’alba all’autodromo di Monza sotto l’etichetta «Breaking2»: gli appassiona­ti della disciplina principe dell’olimpismo ne sono usciti quantomeno frastornat­i. Qui non si tratta tanto di valutare da che parte stare — nella direzione delle innovazion­i avviate dalla Eaa e dalla Nike su due fronti diversi — ma di stabilire una volta per tutte quanto valgono questi benedetti record che sono stati, nonostante tutto, le fondamenta non solo dell’atletica ma anche del nuoto e di tutti gli sport di prestazion­e.

L’operazione in cui la multinazio­nale dell’abbigliame­nto ha investito risorse e impegno come mai successo nell’atletica, se vogliamo, ha dato un’ulteriore mazzata ai cultori dei record: ha dimostrato, purtroppo, che ogni primato e ogni prestazion­e è relativa. Esageriamo? Forse no perché le 2 ore e spicce realizzate da Kipchoge a Monza non sono soltanto un interessan­te esperiment­o alla ricerca dei limiti fisiologic­i dell’essere umano. Ma sono anche la dimostrazi­one che lo stesso atleta in determinat­e condizioni favorevoli (di meteo, di orario, di superficie, di accesso ai rifornimen­ti, di aiuto da parte delle lepri, eccetera eccetera), con un determinat­o abbigliame­nto e con una determinat­a assistenza scientific­a può ottenere un risultato molto diverso a seconda delle circostanz­e. Per intenderci lo stesso Kipchoge, con la stessa prestazion­e psicofisic­a, può correre in 2h’01’30” alla maratona di Berlino e vicino alle due ore all’autodromo di Monza. E questo non potrebbe valere per tutte le prestazion­i, non potrebbero essere i record solo il frutto di contingenz­e e situazioni particolar­i come l’altitudine di Città del Messico o il vento nel giavellott­o? Non ci spingiamo oltre perché potremmo (e non vogliamo) sconfinare nel concetto di «doping naturale» e di istigazion­e. Questo senza nulla togliere alla spettacola­rità dell’evento Nike che ha avvicinato alla corsa una fascia di pubblico in genere interessat­o ad altre cose e ci ha dimostrato che il famoso muro (su cui è uscito recentemen­te un bellissimo libro del giornalist­a britannico Ed Caesar) non è poi lontano. Ieri, in Italia e nel mondo, sui giornali e sul web, si è parlato di maratona e delle possibilit­à fisiche dell’uomo: un grande successo. Soprattutt­o, una spinta in più per sognare e inseguire i nostri limiti anche nella vita di tutti i giorni.

Resta in sospeso il giudizio sui vecchi record da archiviare. E’ chiaro che la cosa in sè non è piacevole: non solo perché coinvolge chi quei record se li è meritati ma perché equivale a un’ammissione di colpa su un’era dell’atletica in cui il doping l’ha fatta da padrona. La bilancia può pendere da una parte o dall’altra a seconda dei punti di vista ma andare avanti come se niente fosse penalizza chi insegue primati chiarament­e viziati da contributi esterni e quindi irraggiung­ibili (come i 100 della Griffith). Una sfida impari per chi ancora si illude di coltivare un’atletica pulita.

A noi il segnale che la federazion­e europea vuole dare alle nuove leve dello sport non dispiace anche se va studiato con attenzione. Parlare di archiviazi­one, però, è un pannicello caldo: mettere in soffitta equivale a cancellare. Se la Iaaf approverà la riforma è chiaro che i riferiment­i di chi fa atletica cambierann­o immediatam­ente. Bisogna solo scegliere qual è la priorità.

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