I LIMITI DELL’UOMO TUTTO È RELATIVO
Forse è una coincidenza, più probabilmente un segno dei tempi. Ma è chiaro che il concetto di «recordismo» nell’atletica non è mai stato così dibattuto come in questa settimana. Da una parte la proposta della federazione europea di creare una sorta di «Hall of Fame» dei primatisti del passato per ricominciare daccapo; dall’altra il tentativo (fallito per 25”) di abbattere il muro delle due ore in maratona che si è consumato ieri all’alba all’autodromo di Monza sotto l’etichetta «Breaking2»: gli appassionati della disciplina principe dell’olimpismo ne sono usciti quantomeno frastornati. Qui non si tratta tanto di valutare da che parte stare — nella direzione delle innovazioni avviate dalla Eaa e dalla Nike su due fronti diversi — ma di stabilire una volta per tutte quanto valgono questi benedetti record che sono stati, nonostante tutto, le fondamenta non solo dell’atletica ma anche del nuoto e di tutti gli sport di prestazione.
L’operazione in cui la multinazionale dell’abbigliamento ha investito risorse e impegno come mai successo nell’atletica, se vogliamo, ha dato un’ulteriore mazzata ai cultori dei record: ha dimostrato, purtroppo, che ogni primato e ogni prestazione è relativa. Esageriamo? Forse no perché le 2 ore e spicce realizzate da Kipchoge a Monza non sono soltanto un interessante esperimento alla ricerca dei limiti fisiologici dell’essere umano. Ma sono anche la dimostrazione che lo stesso atleta in determinate condizioni favorevoli (di meteo, di orario, di superficie, di accesso ai rifornimenti, di aiuto da parte delle lepri, eccetera eccetera), con un determinato abbigliamento e con una determinata assistenza scientifica può ottenere un risultato molto diverso a seconda delle circostanze. Per intenderci lo stesso Kipchoge, con la stessa prestazione psicofisica, può correre in 2h’01’30” alla maratona di Berlino e vicino alle due ore all’autodromo di Monza. E questo non potrebbe valere per tutte le prestazioni, non potrebbero essere i record solo il frutto di contingenze e situazioni particolari come l’altitudine di Città del Messico o il vento nel giavellotto? Non ci spingiamo oltre perché potremmo (e non vogliamo) sconfinare nel concetto di «doping naturale» e di istigazione. Questo senza nulla togliere alla spettacolarità dell’evento Nike che ha avvicinato alla corsa una fascia di pubblico in genere interessato ad altre cose e ci ha dimostrato che il famoso muro (su cui è uscito recentemente un bellissimo libro del giornalista britannico Ed Caesar) non è poi lontano. Ieri, in Italia e nel mondo, sui giornali e sul web, si è parlato di maratona e delle possibilità fisiche dell’uomo: un grande successo. Soprattutto, una spinta in più per sognare e inseguire i nostri limiti anche nella vita di tutti i giorni.
Resta in sospeso il giudizio sui vecchi record da archiviare. E’ chiaro che la cosa in sè non è piacevole: non solo perché coinvolge chi quei record se li è meritati ma perché equivale a un’ammissione di colpa su un’era dell’atletica in cui il doping l’ha fatta da padrona. La bilancia può pendere da una parte o dall’altra a seconda dei punti di vista ma andare avanti come se niente fosse penalizza chi insegue primati chiaramente viziati da contributi esterni e quindi irraggiungibili (come i 100 della Griffith). Una sfida impari per chi ancora si illude di coltivare un’atletica pulita.
A noi il segnale che la federazione europea vuole dare alle nuove leve dello sport non dispiace anche se va studiato con attenzione. Parlare di archiviazione, però, è un pannicello caldo: mettere in soffitta equivale a cancellare. Se la Iaaf approverà la riforma è chiaro che i riferimenti di chi fa atletica cambieranno immediatamente. Bisogna solo scegliere qual è la priorità.