IL NOSTRO SACCHI, UN MITO NEL MONDO
C’è un modo molto italiano di considerare Arrigo Sacchi, di valutare il suo peso nel calcio. E ce n’è un altro più distante che misura le tracce, spalmate nell’orizzonte del mondo. Sono due storie diverse che fanno fatica a parlarsi. Dopo tanti anni, non riescono ancora a coincidere, sovrapporsi. Si può capire, succede. Nella Trieste di fine Ottocento, ricco e popoloso emporio multietnico dell’impero austroungarico, capitava che Italo Svevo fosse indicato come «quel mona de Schmitz» quando passeggiava davanti agli Specchi, uno dei caffé storici della città, frequentato dalla buona borghesia. Schmitz era il vero cognome dello scrittore e «quel mona» si può tradurre in «poveretto» ma, forse, anche con «inadeguato»: una specie di corpo estraneo, qualcuno da sminuire in ogni caso. James Joyce, per dire, sarebbe riuscito a far apprezzare l’inquietudine dell’autore della Coscienza di Zeno. L’ultima sigaretta, ancora una e poi basta. Era avanti, chiaro. Il tempo avrebbe garantito a Svevo un posto importante nella letteratura moderna. Ma, per chi lo viveva da vicino, era quella cosa là: con le sue ossessioni, la sua modernità, le paturnie.
Anche Sacchi era avanti. In Italia è stato trattato - da tanti - come un corpo estraneo al nostro calcio. Qualcosa di magnifico, ma anche casuale e abbastanza dannoso. Il suo modo di far giocare quel Milan – squadra di Silvio Berlusconi, non dimentichiamo – si scontrava con la cultura stratificata di un sistema che da sempre tende a conservarsi. In una penisola divisa per secoli attorno a mille campanili, il minimo che poteva succedere era di vedere gli appassionati e gli addetti ai lavori spaccati in due fazioni: zona contro uomo, difesa in linea o con il libero, gioco d’attacco o solito contropiede, numero 10 dietro alle punte oppure no. Sacchi era targato rossonero, eppure anche tra i tifosi del Milan c’è chi gli preferisce Fabio Capello, perché ha vinto più scudetti e continua a fare quel conto. Sono ragioni che meritano rispetto, e spiegano – almeno in parte – l’attuale stato di salute del calcio italiano, il modo dominante di interpretarlo. Sacchi ha scatenato anticorpi e acceso contaminazioni. Senza di lui non avremmo avuto l’Inter del Trap, la Juve di Lippi e giù, fino agli Ancelotti, Conte e Allegri. Tutto vero. Se però mettiamo il naso nel mondo, dobbiamo prendere atto che diversi nostri miti non hanno riscontro. Invece il Milan di Arrigo vale come il Brasile di Pelé del ’70, come l’Ajax o l’Olanda di Cruijff, come il Barça di Guardiola. Credo che per entrare nella storia non basti vincere, devi anche riempire gli occhi, giocare un calcio marziano. E dopo che l’utopia si realizza, l’emozione resta viva come una festa mobile. Possibile, per sempre.