«Melagioco Evifarò re emoziona Nonso sefirmerei » perilpodio
Il sardo è l’unico italiano da classifica. Un anno fa al debutto andò in crisi sul più bello e finì 13°: ora sogna un finale diverso
Il centro storico di Alghero affacciato sul mare e baciato dal sole, gli edifici grigi e squadrati nei dintorni dell’aeroporto di Dusseldorf minacciati dalla pioggia: ci passa un mondo. Fabio Aru era in Sardegna nei giorni della grande partenza del Giro d’Italia ed è in Germania per il via del Tour de France, ma anche per lui ballano galassie di differenza. Non è un’esagerazione. Ad Alghero, Fabio era in borghese, costretto a una dolorosa assenza dall’infortunio a un ginocchio: sorrideva per il pubblico della sua isola meravigliosa che tanto lo ama, ma non era quella la storia che avrebbe voluto scrivere. Qui, da fresco campione d’Italia, sta per uscire per il primo allenamento in terra tedesca e scherza volentieri con un tifoso che gli fa firmare una sua foto di qualche anno fa: «Ehi, sto invecchiando!». Al ritorno, ritrova ad aspettarlo Alessandra Solinas, nata e residente in Germania ma con il padre di Sassari, che si fa autografare una maglietta sarda: pure lei non si era persa Fabio ad Alghero — ci era andata apposta — e certo non se lo poteva lasciare scappare qui. Aru appare sereno, concentrato, disponibile, con la giusta accortezza di scegliere una zona della grande hall dell’albergo non resa troppo fredda dall’aria condizionata. L’anno scorso ha scoperto il bello e il brutto del Tour de France, sesto fino alla penultima tappa e poi respinto dai primi 10 (13° alla fine) per una crisi verso Morzine. Stavolta spera in un finale diverso. Non è un uomo da proclami, ma manda volentieri un pensiero all’Italia che lo spingerà come unica nostra carta per la generale: «Tifate per me, cercherò di farvi emozionare». E in tanti — italiani e non solo — lo hanno acclamato nel tardo pomeriggio alla presentazione della squadra in centro a Dusseldorf (dove fino a domenica sono attese tra le 500.000 e le 700.000 persone) quando ha sfoggiato la nuova maglia tricolore. Vai, Fabio.
Aru, lei domenica ha vinto dopo un anno. E in generale, per caratteristiche, non può certo sperare in tanti successi ogni anno. In tante occasioni per alzare le braccia, anche nelle stagioni migliori. La curiosità è: avrebbe mai voluto essere un forte velocista, per poter esultare di più? E quella emozione di domenica, a freddo, come la giudica?
«Ah sì. L’ho pensato tante volte,
soprattutto da Under 23 quando c’erano più arrivi allo sprint. Avrei voluto essere più veloce, trovavo sempre l’Enrico Battaglin di turno che mi batteva. Quanto a domenica, il successo tricolore ha avuto un sapore speciale perché venivo da un anno duro. Anzi, da un anno e mezzo: la vittoria al Delfinato 2016 la tralascerei addirittura, perché in generale tante volte non sono riuscito in quello che speravo di fare, pur facendo belle gare. Problemi fisici, sfortuna, e poi è arrivata la morte di Michele Scarponi, che mi ha distrutto. Quel momento di domenica, lo sognavo. Ho rivisto la luce. Quella vittoria vale una carriera».
Addirittura?
«Sì. Campione d’Italia lo rimani per sempre. Tutti ricorderanno e diranno “Hai vinto il Tricolore, quella volta a Ivrea, staccando tutti”. Vorrei che quegli ultimi duecento metri durassero dieci minuti, di recente ho rivisto 3-4 volte il finale e mi sono emozionato ancora».
In Germania non c’era mai stato, la Francia che il Tour raggiungerà stavolta alla terza tappa l’aveva scoperta in un viaggio con la famiglia in auto nel 2003. Che cosa l’aveva colpita, allora?
«Era una estate caldissima,