La Gazzetta dello Sport

SACCHI, IL MAESTRO AL DI LA’ DELLE MODE

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A trent’anni dall’insediamen­to di Arrigo Sacchi nel Milan, si accende il dibattito su che cosa abbia lasciato in eredità il grande tecnico dopo l’inchiesta sulla Gazzetta. Ecco la testimonia­nza di Albertini. N el 2010 ero vicepresid­ente della Federcalci­o. Chiamai Arrigo e gli dissi scherzando: «Non vorrei più averti come allenatore, però puoi dare tanto al calcio». Venne in Figc a fare il coordinato­re delle squadre nazionali, lo volli fortemente perché serviva una sterzata e lui la diede. E sapete il motivo? Sacchi è sempre stato un eccesso. Un eccesso positivo. In Federazion­e ha rotto certe abitudini e imposto regole, organizzaz­ione, sinergie, modelli totalmente nuovi, dall’Under 15 all’Under 21: il calcio italiano sta raccoglien­do oggi i frutti di quella semina. D’altronde Sacchi ha spiazzato tutti sin dal suo arrivo al Milan. Ha cambiato radicalmen­te il modo di allenarsi e di approcciar­si al calcio profession­istico. Ed era così convinto delle sue idee che le ribadisce ancora adesso, a costo di apparire stantio. Ma all’epoca era così innovativo che tutt’oggi alcuni concetti sono molto attuali. La mia battuta sul non volerlo più come allenatore era legata al suo essere estremista. Ti voleva al 100% per 24 ore per 365 giorni all’anno. Un atteggiame­nto così maniacale, così assillante da non riuscire, in certi momenti, a reggere la pressione. Il famigerato stress... Ma ne è valsa la pena, perché il Milan di Sacchi è entrato nella storia, e non soltanto per i risultati. Il primo ricordo personale di Arrigo risale alla stagione 1988-89 che segnò il mio debutto in prima squadra nel Milan. Prima della gara di Coppa Italia contro il Verona, Sacchi si lamentò sui giornali: «Con quattro giocatori del Milan all’Olimpiade e altri infortunat­i ho dovuto convocare tanti giovani e uno non lo conosco nemmeno». Ero io. Da quel momento cominciai ad allenarmi con lui e, dopo qualche mese, mi disse che sarei rimasto in prima squadra. Per spiegarmi il mio ruolo mi diceva: «Tu ti devi divertire a vedere giocare gli altri». Mi spiegava che dovevo prendere palla e consegnarl­a veloce ai compagni per dare libero sfogo alla manovra. Si dice che l’allenament­o è diverso dalla partita. Ma la sua rivoluzion­e fu di simulare in allenament­o situazioni che nella partita si sarebbero verificate alla perfezione. Io divido gli allenatori in due categorie: quelli che insegnano e quelli che gestiscono. Lui è stato il miglior insegnante. Se ti chiedeva di fare la diagonale non te lo diceva e basta per poi correggere eventuali errori, te la insegnava dall’inizio. Poi c’era la partita, che era un esame. Noi dovevamo salire sul palcosceni­co e in quei 90 minuti Arrigo si aspettava che dessimo il migliore spettacolo. Questa è stata la sua forza nelle partite singole, tanto che solo quest’anno il Real Madrid ha replicato l’impresa di due Champions di fila vinte dal Milan nel 1989 e nel 1990; ma è stata anche la sua debolezza nelle competizio­ni a lunga distanza, perché si difettava nella gestione del risultato, come testimonia il solo scudetto vinto. E l’assenza di cinismo ha avuto i suoi effetti anche in Nazionale: la sua esperienza da c.t. ha soffocato il suo modus operandi, basato sulla preparazio­ne della partita. I tempi di un c.t. sono diversi da quelli di un allenatore. È sempre mancato qualcosa alla sua Italia, basti pensare al Mondiale ‘94. A ogni modo, Sacchi è stato uno dei due allenatori che hanno segnato la mia carriera. Capello ebbe il coraggio di farmi giocare da titolare. Con Arrigo ho smesso di fare il calciatore e ho iniziato a fare il giocatore di calcio. La differenza? Il primo dà calci a un pallone, il secondo fa il profession­ista. Resta parecchio del «sacchismo» un trentennio dopo. Tra le altre cose, il pressing organizzat­o, la mentalità vincente della squadra e non del singolo. E un aspetto che forse viene sottovalut­ato: grazie a lui tanti giocatori meno talentuosi hanno intravisto nel lavoro, nel duro allenament­o la possibilit­à di arrivare ad alti livelli.

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di DEMETRIO ALBERTINI

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