La Gazzetta dello Sport

Segna tre gol, stende l’Ecuador Porta l’Argentina al Mondiale russo

siamo complicati la vita ma la paura è passata», dice Leo. Che balla la Papu dance

- Martin Mazur BUENOS AIRES

Allo stadio di La Plata, come se fosse un tifoso qualsiasi, Noel Gallagher applaudiva davanti al maxischerm­o con 50 mila persone attorno. Il cantante inglese, spalla degli U2, non era riuscito a resistere la tentazione di guardare Messi sul vivo. A pochi passi, Bono e il tour Joshua Tree aspettavan­o il fischio finale per iniziare il concerto, rimandato apposta dopo Ecuador-Argentina. «Grazie per Lionel Messi. Lui dimostra che Dio esiste», ha detto l’irlandese prima di iniziare. Ma i tifosi erano già in estasi. Con la sua tripletta e la qualificaz­ione a Russia 2018, Messi aveva rubato la scena come se fosse lui la vera rock star. E la sua band, la Selección, praticamen­te era diventata una cosa solo di Leo. Come ai migliori tempi di Maradona, Messi ha risolto tutto da solo.

APPARIZION­E Mai visto così in Nazionale, soprattutt­o in una partita fondamenta­le. Non era certo la finale del Mondiale 2014, né quelle di Coppa America (2007, 2015, 2016, tutte perse), ma si parlava senza dubbio della partita più difficile del secolo. Nelle altre, la sfida era vincere per alzare una coppa per la prima volta dal 1993; ma contro l’Ecuador si viveva un clima più simile allo spareggio per non retroceder­e. Sarebbe stato il primo Mondiale dal 1970 senza l’Argentina. E la paura aveva elementi che la rendevano una possibilit­à più che valida. La Selección era al sesto posto, aveva soltanto 16 gol (la peggiore squadra con la Bolivia, con appena un rigore e un autogol segnati nel 2017) e aveva cambiato tre allenatori, tre presidenti dell’Afa, 7 centravant­i, 18 formazioni diverse in 18 partite. «Ovviamente che il timore c’era, lo sapevamo. Non poteva essere che l’Argentina non si qualificas­se, ma siamo stati noi giocatori quelli che ci siamo complicati da soli, non vincendo le ultime due partite in casa, pur avendo meritato, ma per fortuna è finita bene», ha detto Messi, senza parlare di rivincite, nel primo contatto ufficiale con i microfoni dopo 11 mesi di silenzio stampa. Sua sorella, María Sol, mise il suo sfogo su twitter: «Continuate a parlare, 3 bacini». E sebbene Messi non sia più criticato come 10 anni fa, con l’albicelest­e gli mancava una grande partita stile Barcellona. Il suo primo padrino

nella Selección, Juan Sebastian Verón, gli ha mandato un rinforzo molto particolar­e: il Brujo Manuel, lo sciamano che aveva aiutato l’Estudiante­s a pulire l’energia dello spogliatoi­o e che è entrato allo stadio Atahualpa come parte integrante della squadra argentina. Ma l’unico che poteva cambiare la situazione, altro che il Brujo Manuel, era il Mago Lionel.

LEADER Era dai tempi del Mondiale Under 20 che Leo non si sbloccava come nella grande notte di Quito, davanti al fantasma dell’altitudine, 2800 metri che alla fine non sono stati all’altezza della star argentina, gigante. E’ lui che ha comandato la reazione argentina quando, dopo aver preso un gol dopo 36 secondi di gioco, chiede il pallone per allontanar­e la quasi sicura Waterloo. L’Argentina aveva vinto soltanto una volta in Ecuador: nel 2001. Messi non aveva mai segnato (né vinto) a La Paz e a Quito (2850 metri di altitudine). «E’ stato ancora più difficile iniziare in svantaggio, perché sapevamo delle condizioni e di quello che si dice dell’altitudine. C’era la grande paura di non qualificar­si, pazzesco. Ma spero che adesso possiamo lavorare insieme, sappiamo che ci sono ragazzi contestati nonostante tutto quello che hanno fatto in Nazionale, ma è un giorno importante e dobbiamo pensare positivo», ha aggiunto Messi.

ESTASI «Grazie a Dio», ha titolato El Gráfico. «Messi ci porta al Mondiale», ha scritto il Clarin. I titoli sono tutti per il miracolo di Leo: «Grazie a Messi»

(La Nación), «Messi è argentino» (Olé). Messi ha giocato con l’anima, con il cuore, ma anche con tutto se stesso: super concentrat­o, non ha voluto nemmeno alzare la testa durante l’inno nazionale. Sapeva che il salvataggi­o argentino partiva e finiva nei suoi piedi. Ed è stato così. «Prima della partita abbiamo parlato che non era Leo quello che ci deve un Mondiale; è il calcio a doverglien­e uno a Messi», ha detto l’allenatore Jorge Sampaoli.

GLI EREDI IN PANCHINA Una volta Leo segnò una tripletta contro il Brasile, sì, ma era un’ amichevole. E’ stato fondamenta­le contro Colombia e Uruguay, è vero. Ma tutte le strade finivano a Quito. La qualificaz­ione o il disastro. E a decidere il destino argentino c’era solo Messi. Dybala e Icardi? In panchina. Lavezzi, Higuain e Aguero? A casa. Della vecchia squadra rimanevano soltanto Mascherano, Biglia e Di Maria, circondati di «sconosciut­i» come Acuña, Benedetto e Salvio. Alla fine, tutti hanno gridato in campo nella partita più sofferta. Ma quello che ha cantato più forte di tutti non è stato né Bono né Gallagher, è stato Messi. E nel viaggio di rientro, il capitano ha pure ballato la Papu dance.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy