La Gazzetta dello Sport

BRAVO HEYNCKES: LUCIDA IL CALCIO

- LA ROVESCIATA ROBERTO BECCANTINI di

Salire sul carro di coloro che hanno condannato l’esonero di Carlo Ancelotti riassume, al netto dell’inflazione, un sentimento legittimo. Chioserebb­e il latinista Claudio Lotito: tu quoque, Bayern. Ciò premesso, è del ritorno di Jupp Heynckes che questa «Rovesciata» si occupa. Heynckes ha 72 anni e appartiene alla categoria degli allenatori che il passato di giocatore ha reso più schiavi che padroni del «nuovo» mestiere. Perché, ai loro tempi, il tecnico era importante, sì, ma la tecnica ancora di più.

Attaccante di micidiale repertorio alla Gigi Riva, per intenderci Heynckes legò il suo nome e la sua mira alla storia del Borussia Moenchengl­adbach, lattina «interista» compresa. Vinse quattro scudetti, una Coppa di Germania, una Coppa Uefa; fu capocannon­iere della Bundesliga e, caso unico, del trittico europeo (Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa Uefa); con la Nazionale si laureò campione d’Europa nel 1972 e del Mondo nel 1974 (titolare all’inizio, riserva alla fine).

L’attività di libero docente l’ha portato molto in Spagna e per ben quattro volte al Bayern. Con il Real, nel 1998, soffiò la Champions alla Juventus. Risolta da un gol di Predrag Mijatovic in fuorigioco, la finale risultò sinceramen­te brutta. Il capolavoro rimane la stagione 2012-2013. Heynckes pilotava il Bayern e vinse tutto: campionato, coppa domestica, Champions. Non era un Bayern qualsiasi: nel 2010, Louis Van Gaal l’aveva condotto alla «bella» con l’Inter del Triplete; due anni dopo, lo stesso Heynckes si era arrampicat­o sino alla finale, salvo arrendersi ai rigori del Chelsea.

Assomiglia, nel catechismo, a Vicente Del Bosque, il Cincinnato che prolungò i fasti del Real e della Spagna. Non ha cambiato il calcio, Heynckes, come riuscì invece a Pep Guardiola con il Barcellona di Leo Messi, Andrés Iniesta e Xavi. L’ha lucidato, l’ha onorato. Un tedesco verticale, appagato dagli scalpi dei safari giovanili non al punto da rinunciare agli sfizi della maturità. Negli ottavi il Bayern rischiò grosso con l’Arsenal (vinse a Londra 3-1, perse in casa 2-0), nei quarti si mangiò la Juventus di Antonio Conte (doppio 2-0) e, in semifinale, sbranò il Barcellona del compianto Tito Vilanova: 4-0, 3-0. Per carità: era un Barça pieno di problemi, con Messi giù di corda (e al Camp Nou, addirittur­a in panca), ma insomma: i tabellini sono sentenze.

Il derby di Wembley, con il Borussia Dortmund di Jurgen Klopp, celebrò l’apice della «Germanicit­à». Lo decise, a un minuto dal termine, una zampata di Arjen Robben. Il Bayern di Heynckes applicava un 42-3-1 ad assetto variabile, scaltro e raffinato a seconda delle opportunit­à e delle esigenze. Neuer tra i pali; poi Lahm, J. Boateng, Dante e Alaba in difesa; Javi Martinez e Schweinste­iger lucchetti di centrocamp­o; Robben, Muller e Ribéry a ispirare Mandzukic. Il centravant­i non era più lo spazio. Pane al pane: il centravant­i era il centravant­i.

A Heynckes non bastò fare incetta di trofei. Già a dicembre i grandi capi si erano accordati con Guardiola. Che, in Baviera, avrebbe vinto tutto tranne la Champions. All’epoca, Jupp aveva 68 anni, l’età di Gian Piero Ventura nel 2016, quando venne promosso ct. A scolpire la svolta tattica contribuì l’infortunio di Toni Kroos - contro la Juventus, all’andata - ma sarebbe riduttivo liquidarne le scelte entro confini così grezzi.

Il Bayern di Heynckes è stato deposto troppo in fretta dalla memoria. Viceversa, segnò un passaggio cruciale tra la cucina catalana del tiki-taka e il menu di un calcio più «generalist­a» ma non meno moderno. Solo che Heynckes non allenava i giornalist­i.

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