D’ANTONI, MOE E LA «NON DIFESA»
Ho letto le dichiarazioni di Mike D’Antoni alla Gazzetta. Due in particolare mi hanno colpito. La prima quando ammette che i suoi due geni e costruttori di gioco, James Harden e Chris Paul, fanno cose che lui non saprebbe nemmeno «insegnare o pensare». Mica male per uno che è stato il play per antonomasia. La seconda è una citazione di Doug Moe, cui è debitore del suo modo di giocare, basato sul tiro rapidissimo. Anche Moe, mi risulta, è passato dall’Italia, ma so poco di lui.
Camillo Buontempi
L’intervista di Massimo Lopes Pegna è in effetti pieni di spunti di grande interesse. Da buon «player’s coach», D’Antoni imposta le linee generali del suo gioco, soprattutto d’attacco, e poi lascia piena libertà a giocatori, scelti in modo funzionale al «seven seconds or less», cioè tira in 7 secondi o anche meno. Così è diventato due volte allenatore dell’anno nella Nba. Doug Moe, che oggi ha 79 anni, è stato uno dei primi a spingere il basket professionistico su questa strada, molte stagioni dopo aver lasciato un’impronta indelebile nel nostro campionato come giocatore. Correva l’anno 1965, quando la Serie A riaprì ad uno straniero per squadra. Così quel ragazzone di Brooklyn, allora ventisettenne, decise di venire nel nostro Paese, anche perché la strada della Nba gli era stata preclusa dal coinvolgimento, peraltro molto marginale, in uno scandalo scommesse all’epoca dell’università. L’Olimpia Milano lo scartò dopo un provino, preferendogli il più lineare Skip Thoren: un grande abbaglio, ma va detto che i milanesi guidati da Cesare Rubini quell’anno vinsero lo scudetto. E così Moe venne a predicare basket a Padova, dove si rivelò il primo vero fenomeno del campionato italiano. Giocatore totale, ala capace di tirare e attaccare in tutti i modi, con fondamentali impeccabili, anche spalle a canestro. Un tale mostro che, giocando una domenica con la mano destra indolenzita per un colpo, tirò per l’occasione i tiri liberi con la sinistra. Segnandoli tutti. Due campionati indimenticabili nel Petrarca: nel primo fu capocannoniere con oltre 30 punti di media (e la squadra arrivò terza dopo Milano e Varese, massimo risultato della sua storia), nel secondo ne segnò oltre 26. Quasi 50 anni dopo, nel 2014, Doug tornerà a Padova per una straordinaria rimpatriata con i vecchi compagni. Curioso che il suo tecnico di allora fosse il grandissimo Aza Nikolic, poi creatore del mito dell’Ignis Varese e della Jugoslavia, il cui credo, fondato sulla difesa e sul rigore degli schemi, era mille miglia lontano dall’approdo tattico del Moe allenatore.
Di ritorno negli Usa, l’altra lega pro, l’Aba, gli consentì un’ottima carriera, accreditandolo poi come tecnico nella Nba. Quattro buone stagioni a San Antonio, ma fu a Denver che Doug divenne una leggenda della panchina, rimanendovi per 10 anni all’insegna dei fuochi artificiali. Tipo il primo campionato: 126,5 punti segnati di media. In quegli anni un giornalista immaginifico lo denominò «teorico della non difesa». Tuttavia il «corri e tira» elevato a sistema non consentì solo spettacolo (in 6 campionati su 10 i Nuggets furono il miglior attacco della Nba), ma anche risultati importanti: 9 volte di fila ai playoff, una finale di Conference, tre semifinali. E 432 partite vinte in stagione regolare: oggi quel numero è impresso, in suo onore, su una bandiera che pende dal soffitto dell’arena di Denver. Anche lui, nel 1988, fu allenatore dell’anno. E da quel personaggio estroso, dissacrante e ironico che era, dichiarò: «Giuro che non lo volevo questo titolo. Ma adesso che l’ho vinto, mi piace. È un onore. Bello sapere che c’è gente che non mi considera un idiota totale… Ma dev’essere stato proprio un anno modesto per gli allenatori…».