La Gazzetta dello Sport

CAPISCO KENNEDY, HO PROVATO QUESTO STRAZIO PER MIO FRATELLO

- di REINHOLD MESSNER

Sulla drammatica vicenda di Hayden Kennedy, il giovane e fortissimo alpinista statuniten­se che si è suicidato dopo che la sua compagna era rimasta vittima di una valanga, non posso dare spiegazion­i o esprimere giudizi. Dei fatti ho già scritto. Posso aggiungere tutta la mia solidariet­à ai suoi genitori e in particolar­e a Michael, il padre, fortissimo alpinista lui pure, che ho avuto modo di conoscere e incontrare più volte. Quel che però posso comprender­e bene sono i lunghi momenti di disperazio­ne e poi di strazio che Hayden deve aver vissuto in quel canalone dell’Imp Peak dove voleva fare una sciata in neve fresca con Inge Perkins. Hayden sotto la valanga ha perso la compagna, io, 37 anni fa, il fratello, Günther.

Anche se io non fui coinvolto direttamen­te in quella valanga ormai ai piedi del Nanga Parbat - ero più avanti, non la vidi nemmeno - la situazione che vissi è molto simile. All’inizio c’è lo shock, poi la mente realizza quello che è accaduto e cominci a fare il possibile per essere d’aiuto al tuo compagno di cordata e continui anche quando è evidente che non puoi avere alcuna speranza. Perché provi a rifiutare il fatto che ormai la responsabi­lità, che fino a pochi momenti prima dividevi con chi era con te, ora sta precipitan­do tutta addosso a te solo. Purtroppo Hayden, proprio in quanto solo, poteva fare ben poco: infatti Inge è stata trovata - grazie alle precise indicazion­i lasciate dallo stesso Hayden prima di suicidarsi - sotto un metro di neve. Ci sarebbe voluto un vero miracolo per liberarla, perché con le sole mani, o anche con una pala, da soli non si può far alcunché quando dalla massa nevosa non emerge alcuna traccia di chi si sta cercando.

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