La Gazzetta dello Sport

I DUBBI PER CERTE SALITE SULL’EVEREST

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Kilian Jornet era stato al centro dell’attenzione mondiale nello scorso mese di maggio grazie alla sua doppia salita dell’Everest in velocità. Ne avevo scritto anche io in questa rubrica, ma sottolinea­ndo il solo exploit fisico.

Ora i dubbi su quelle sue salite sono diventati precise e pesanti confutazio­ni. I dubbi erano sorti da subito, perché lo spagnolo in entrambe le occasioni era ritornato senza foto o altra documentaz­ione di vetta, raggiunta in solitario e in orari nei quali non c’erano testimoni a quota 8850 metri.

Ma, sinceramen­te, non mi interessa più di tanto questa vicenda. Quelle due salite nulla hanno a che fare con l’alpinismo tradiziona­le, che è ciò di cui mi occupo. Chi sale l’Everest sulle vie normali in primavera o in autunno può fare soltanto turismo d’alta quota, perché c’è la pista preparata dagli sherpa. Oppure, come nel caso di Jornet, può fare sport, però per farlo bisogna documentar­e gli exploit. Infatti lo sport può esistere solamente se ci sono regole da rispettare e giudici in grado di controllar­e che esse vengano appunto rispettate. Invece, l’alpinismo di regole non ne ha. Piuttosto ha principi etici. Ma in questo caso si tratta di istanze dove talvolta è difficile trovare il confine fra soggettivo e oggettivo.

Io non ero sull’Everest e quindi non posso dire se Jornet è o non è arrivato davvero in vetta il 22 e il 27 maggio. Ho però visto le fotografie della salita che sono state diffuse e quindi so che ha utilizzato la pista, anche se nella comunicazi­one delle sue due imprese si affermava il contrario. Tanto più che, essendo egli salito dal versante Nord, non può aver scalato in libera il risalto di roccia famoso come «second step». Neanche per sogno.

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