La Gazzetta dello Sport

Doping, adesso l’Uci stringe le maglie dei controlli

●Dopo gli 8 positivi in Colombia, i 20 in Costa Rica: la Federciclo internazio­nale alza l’attenzione sui Paesi emergenti

- Paolo Marabini

L’ultimo caso, reso noto tre giorni fa, è il più clamoroso. È accaduto alla Vuelta a Costa Rica, corsa a tappe di categoria 2.2 (cioè aperta non solo ai profession­isti) che si è disputata alla fine di dicembre. Il vincitore di due tappe e della classifica finale, il beniamino di casa Juan Carlos Rojas Villegas (già primo in quattro precedenti edizioni della corsa), è risultato positivo al Cera. E, con lui, altri 11 connaziona­li sono finiti nella rete dell’antidoping, di cui uno per Epo. Il clamoroso caso — peraltro i dodici positivi sono in attesa del risultato delle controanal­isi — segue di poche settimane quello che a fine novembre si è abbattuto su un’altra corsa dell’area Centro-Sud America e della medesima categoria, la Vuelta a Colombia, disputata ad agosto, con otto positivi, tutti colombiani: sette al Cera e uno per steroidi. Ciò che emerge subito è che tutti questi ultimi 20 casi riguardano corridori sconosciut­i: il migliore è ben oltre il 1000° posto nel ranking mondiale. E ciò fa capire quanto negli ultimi mesi l’Uci abbia alzato il livello di attenzione, cominciand­o a puntare il mirino anche nei confronti di quei Paesi e di quelle corse in cui, in passato, le maglie della rete antidoping erano ben più larghe. Significat­ivo che Andrew Amador, il costaricen­se più famoso, vincitore di una tappa al Giro

2012 e 4° nella classifica finale della corsa rosa tre anni dopo, si sia molto risentito per l’ultimo scandalo. «Questo non è il mio

Paese» ha detto affranto lo scalatore della Movistar. LASSISMO Da anni, nell’ambiente, si vocifera che soprattutt­o in Sud America ci sia una sorta di lassismo sul fenomeno doping. E anche per tutelare la reputazion­e dei corridori di punta dei medesimi Paesi — colombiani in testa, per esempio — oltre che delle stesse competizio­ni, l’Uci sta intensific­ando i controlli. Non a caso, nel 2017, su 155 casi doping nel ciclismo mondiale ben 45 hanno riguardato corridori sudamerica­ni. Non a caso, anche in Argentina, nell’ultima edizione della Vuelta San Juan che si è conclusa domenica scorsa, sono stati testati ogni giorno diversi ciclisti locali, soprattutt­o appartenen­ti a team minori. Emblematic­o che al termine della prima tappa siano stati controllat­i i sei corridori della Sep, la formazione argentina di categoria Continenta­l (cioè la terza fascia del ciclismo) che ha poi vinto la classifica finale con il giovane campione nazionale Gonzalo Najar. Sospetti? Non è dato a sapere, ma di certo si tratta di un fatto che non è passato inosservat­o ad alcuni addetti ai lavori.

VETRINA Tornando al caso degli ultimi venti positivi tra Colombia e Costa Rica, la domanda sorge spontanea: perché doparsi se poi non si riesce nemmeno a entrare tra i primi mille del ranking mondiale? Sempliceme­nte perché mettersi in luce in certe corse, dove i controlli sono appunto meno frequenti e rigorosi, e che negli ultimi anni sono diventate una vetrina anche fuori i confini nazionali, può regalare la grande occasione della vita. Che, in soldoni, si traduce in un ingaggio per un team Profession­al o addirittur­a di World Tour. Poi sappiamo tutti che i test più efficaci sono quelli a sorpresa. E siccome quasi tutti i corridori di squadre Continenta­l, se non si tratta di atleti di interesse nazionale, non hanno l’obbligo di osservare il Protocollo Adams Uci/Wada in tema di reperibili­tà, allora ben si capisce come possano sfruttare questo vantaggio — chiamiamol­o con il suo nome — già in sede di allenament­o. Ma questo, ovviamente, non vale solo per il Sudamerica.

45

IL NUMERO i casi di positività in Sud America riscontrat­i nel 2017 sui 155 totali nel ciclismo mondiale

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Najar Gonzalo, a sinistra, coi compagni della Sep: testata in toto dopo la 1a tappa della Vuelta San Juan

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