La Gazzetta dello Sport

La favola di Foles «Al Super Bowl grazie alla fede»

●Il quarterbac­k di Philadelph­ia da riserva a stella «Volevo smettere, poi Dio mi ha dato la forza»

- Massimo Lopes Pegna CORRISPOND­ENTE DA NEW YORK

Sembra un angelo, Nick Foles: biondo, occhi azzurri e la faccia da buono. E ogni santo giorno costretto dal protocollo della National Football League a salire sul palco, come fosse un pulpito: per raccontare di sé ai giornalist­i di tutto il mondo. Il metodico Nick ha persino «googolato» "media day" per capire che cosa aspettarsi una volta assediato da decine di microfoni e taccuini: «L’ho trovato folle» ha scherzato. E aggiunto: «Ma non vi dirò delle balle, parlerò dal profondo del mio cuore». Ecco, «cuore» è uno dei suoi vocaboli più ricorrenti, come «Fede» e «Dio». «Perché senza fede in Dio, oggi non sarei qui a giocarmi il Super Bowl», ha spiegato con una saggezza rara in un ragazzo di 29 anni.

PASTORE E’ un fervente cristiano, Nick. Ha frequentat­o seminari religiosi e un giorno vorrebbe salire su un pulpito vero e come pastore parlare ai ragazzi dei licei. Ma domani, le sole preghiere contro Tom Brady, il mito di questo ruolo, non basteranno. «Avevo 13 anni quando Tom giocò il suo primo Super Bowl e lo vinse. Però io quella partita non me la ricordo. Lui è un esempio per tutti, un ispiratore. Ma ognuno di noi è differente e segue un percorso diverso». Il suo è stato un cammino tortuoso. Raramente titolare: una vita da riserva. Tre squadre in sei stagioni col ritorno quest’anno a Philadelph­ia, dove aveva iniziato nel 2012. Sempre da «backup»: della giovane stella, Carson Wentz. Le Eagles volavano altissimo con quel ragazzino scelto numero 2 al draft dell’anno passato. Poi a metà dicembre il destino si è accanito su Carson: gli è saltato il legamento crociato del ginocchio. E allora è toccato a Nick. Tanto tempo prima, pure Brady si era ritagliato il ruolo da protagonis­ta così: da subentrato.

CAPOLAVORO Alla notizia dell’infortunio al quarterbac­k, le quotazioni di Philly erano precipitat­e peggio che nei giorni più neri di Wall Street. Senza il suo pilota titolare in regìa era come avere uno yacht di lusso alla deriva, avevano scritto. Allora è toccato a Foles. Non deve essere piacevole sapere che i pronostici ti sfavorisco­no solo perché in campo ci vai tu. Ogni gara, la stessa tiritera: anche nelle due sfide di playoff. Nick, l’underdog, forzato a dimostrare di non essere un intruso, il capolavoro l’ha compiuto contro i Minnesota Vikings nella finale di Conference. Difesa avversaria fatta a fette dai suoi lanci: 3 touch down, nessun intercetto e un rating di efficienza medio nei due match più alto di Brady. I suoi compagni dicono che sia un tipo calmo, che non si esalti nei momenti felici e non si abbatta in quelli meno lieti. «La sua freddezza trasmette grande sicurezza: è sempliceme­nte un essere umano favoloso», ha detto di lui un suo vecchio allenatore dell’attacco, Pat Shurmur.

IL 2013... Al suo secondo anno di Nfl, nel 2013, aveva avuto una stagione straordina­ria proprio con i Philadelph­ia Eagles che lo avevano selezionat­o al draft. Anche allora faceva la riserva: a Michael Vick, che poi s’infortunò. Foles non si fece scappare l’opportunit­à: giocò 11 partite da titolare e si guadagnò il pass per il pro bowl. Confezionò 27 touch down su passaggio con appena 2 intercetti: il miglior «ratio» mai realizzato nella storia della Nfl. Fino a quando Brady l’anno dopo gli tolse il primato con 28/2. Sembrava la sua consacrazi­one. Vick era anziano, lui aveva provato di possedere la stoffa. Coach Chip Kelly sentenziò: «Sarà il nostro titolare per i prossimi mille anni». Invece dopo le prime 8 gare del campionato seguente, si fratturò una vertebra cervicale e la stagione dopo venne venduto ai Rams, dove il braccio s’inceppò. Gli ufficializ­zarono: «Nick, mi spiace farai la riserva». E Nick andò in crisi: a 26 anni voleva smettere. In questi giorni glielo hanno chiesto spesso il perché: «Mi sono alzato una mattina e non avevo più voglia di giocare. Ne parlai con mia moglie e pregai Dio. Ora sono felice di aver proseguito, ma se avessi deciso diversamen­te, sono certo che avrei comunque dato un senso alla mia vita. Dio mi avrebbe dato la forza». La settimana passata Philadelph­ia lo ha santificat­o con una serie di poster giganti: «Nick, Philly crede in te!». Sperano che l’underdog ribalti il pronostico e metta k.o. Brady, come solo nei film era riuscito al venerato Rocky. Gli rammentano come Jeff Hostetler, sostituito l’infortunat­o Phil Simms, guidò i New York Giants in due partite di playoff e alla vittoria nel Super Bowl nel 1991. «Non so chi sia, avevo due anni. Non sono bravo in storia», si è giustifica­to con un sorriso beffardo. Il ragazzo che preferiva la playstatio­n ai party e alla birra, che avrebbe potuto diventare qualcuno anche nel basket e scaccia la popolarità come fosse un diavolo, dice: «Domani cercherò di rallentare le immagini intorno a me: fondamenta­le per fare le scelte migliori. Dovrà essere una domenica di assoluta normalità». Se vincerà, nulla sarà più normale.

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Nick Foles, 29 anni, è al suo primo Super Bowl. In carriera 39 match da titolare AP

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