UNA STORIACCIA VERSO L’8 MARZO
Lettere alla Gazzetta
Nelle settimane scorse si è molto discusso sul caso Weinstein, sulle molestie e violenze, in particolare nel mondo dello spettacolo. Ebbene, vorrei parlare di un altro tipo di violenza, che io stessa ho subito, una violenza più silenziosa di cui si parla poco, quella psicologica. Nel mio caso, in ambiente sportivo e arbitrale. A 16 anni (ora ne ho 20) decido di frequentare un corso di arbitraggio di calcio, per sapere il più possibile sullo sport che amo. Nelle prove finali risulto la migliore. Inizialmente l’ambiente mi piace, faccio amicizia con altri ragazzi e ragazze. Finita le parte teorica, via agli allenamenti, in vista delle prime partite che avrei arbitrato a gennaio. Ed è qui che comincia l’incubo. Premetto di essere sempre stata in sovrappeso, nonostante abbia praticato vari sport. Dunque, mi metto a dieta e m’impegno, senza mai saltare un allenamento, sfidando anche pioggia e freddo cui non sono mai stata abituata, per dimostrare soprattutto a me stessa che ce la posso fare.
Il problema è quello che succede dopo gli allenamenti o durante le riunioni in sede. Mi viene spesso detto, anche con poco tatto, della necessità di dover perdere peso. Questo mio problema viene evidenziato da chiunque, non dai soli dirigenti. Ricordo ancora la prima volta che un uomo che potrebbe avere l’età di mio padre, con cui non ho mai scambiato parola e di cui non conosco nemmeno il nome, mi guarda e mi apostrofa: «Forse è meglio che inizi a buttare giù quella pancia». A ogni riunione o allenamento, mi viene fatto presente che sì, sono grassa, non vado bene così, devo assolutamente perdere peso.
Il mio sovrappeso diventa quasi una questione di dominio pubblico, la pressione aumenta, fino a diventare insostenibile. E così, a inizio dicembre, oltre ai consueti allenamenti e a una dieta, comincio a vomitare. Mi induco il vomito fino a due volte al giorno prima di una partita. Non voglio più niente nel mio stomaco, non voglio più gli insulti addosso da parte di coloro che in realtà mi dovrebbero aiutare a crescere, che dovrei chiamare colleghi o addirittura amici. Anche se comincio a dimagrire velocemente, troppo, gli insulti non diminuiscono. Non riesco più a essere concentrata a scuola, il mio carattere è sempre più ingestibile e il mio unico pensiero è rivolto al cibo, o meglio, a evitarlo o rigurgitarlo. Nessuno sa che cosa mi sta accadendo. A distanza di anni, penso che il periodo da dicembre a maggio (mese in cui decido di uscire da quell’inferno) siano stati i più bui e solitari della mia vita. In seguito ho saputo che anche altre ragazze della sezione venivano bersagliate da molti commenti e che hanno poi sofferto di disturbi alimentari. Io ne sono uscita da sola, poiché arrivata a un punto di non ritorno.
In Italia ci sono circa un migliaio di arbitri donna e la mia domanda è: in quante hanno passato la mia stessa situazione? In quante si portano ancora dietro danni psicologici e fisici? Ma ancora più in generale, quante donne nel mondo dello sport si sono sentite inadeguate, vittime di una silenziosa violenza psicologica e di una pressione sempre più pesante? Dopo quasi quattro anni mi porto ancora dietro il trauma di quel periodo di cui per tanto tempo non ho voluto parlare, nonostante sia riuscita a dimagrire in modo sano, attraverso lo sport e una nutrizione equilibrata. Fatto sta che, dopo aver smesso le vesti da arbitro, non sono più riuscita a guardare una partita di calcio, lo sport che tanto amavo.
Vorrei rimanere anonima