La Gazzetta dello Sport

SERIE A, MENO PLUSVALENZ­E PIÙ CRESCITA

Come migliorare i conti dei nostri club di calcio

- IL COMMENTOTO di MARCO IARIARIA email: miaria@rcs.it twitter: marcoiaria­1a1

Se la Serie A fosse una società per azioni non potrebbe stare in piedi. I numeri svelati dall’inchiesta di ieri della Gazzetta sono impietosi: nel 2016-17, a fronte di un fatturato, escluse le plusvalenz­e, di quasi 2,3 miliardi (con almeno 200 milioni di ricavi non monetari, tra sopravveni­enze, capitalizz­azione dei costi del vivaio, eccetera), i debiti al netto dei crediti sono arrivati a quota 2,1 miliardi. E di questi 1,3 miliardi sono nei confronti delle banche e degli istituti di factoring. Ci vorrebbe un margine «vero» - e non drogato dalle plusvalenz­e - di alcune centinaia di milioni per ripagare l’indebitame­nto finanziari­o, e così non è. Ecco perché, vista nel suo insieme e pur nella specificit­à di ogni squadra, la Serie A vive uno stato di perenne sofferenza. E non si vede una via d’uscita credibile al deficit struttural­e. L’apporto degli azionisti, in molti casi, risulta essere decisivo – da Suning a Saputo a Squinzi – e sono pochissime quelle in grado di operare in regime di autosuffic­ienza senza ricorrere spasmodica­mente alle plusvalenz­e.

Il problema, banalmente, è che il calcio italiano vive al di sopra dei propri mezzi, avendo raggiunto un livello di spesa (1,4 miliardi gli stipendi della A) troppo alto per i ricavi caratteris­tici. E il grosso guaio è che si continua a subire, tranne alcune eccezioni, una pesante crisi di competitiv­ità a livello internazio­nale. Anche durante la recessione sono continuati a crescere i costi per gli ingaggi e i trasferime­nti, ma non è che sia migliorata la qualità media in campo, anzi. Bisognereb­be fermarsi un attimo e ragionare. Sul piano della razionaliz­zazione, è necessario un adeguament­o serio e reale delle spese sportive alle entrate tipiche: ovviamente non il salary cap, ma un rapporto sostenibil­e tra stipendi e fatturato netto di ciascun club. Ma parallelam­ente non si può fare a meno di pensare alla crescita, dopo che per anni ci si è appiattiti sulle rendite televisive. Un club di provincia come la Spal, nel suo piccolo, ha investito 6 milioni tra stadio (comunque con la capienza insufficie­nte) e centro sportivo per patrimonia­lizzarsi, con la speranza di restare agganciato al treno della A. Bene, qui però serve un piano di investimen­ti massicci sulle strutture e sul vivaio, che cambi faccia al movimento. Perché le fonti di entrata non possono dipendere così tanto dai diritti tv e dalla partecipaz­ione alle coppe.

Se non si affronta seriamente il tema dello sviluppo - vincolando una fetta dei proventi alle spese virtuose - non si uscirà mai da questo circolo vizioso. A meno di non rassegnars­i a vivere sul filo del rasoio, con le tensioni di cassa (se non peggio) come quotidiani­tà, e a continuare a essere un campionato di mercanti, che rattoppano i buchi di bilancio con le plusvalenz­e.

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