SERIE A, MENO PLUSVALENZE PIÙ CRESCITA
Come migliorare i conti dei nostri club di calcio
Se la Serie A fosse una società per azioni non potrebbe stare in piedi. I numeri svelati dall’inchiesta di ieri della Gazzetta sono impietosi: nel 2016-17, a fronte di un fatturato, escluse le plusvalenze, di quasi 2,3 miliardi (con almeno 200 milioni di ricavi non monetari, tra sopravvenienze, capitalizzazione dei costi del vivaio, eccetera), i debiti al netto dei crediti sono arrivati a quota 2,1 miliardi. E di questi 1,3 miliardi sono nei confronti delle banche e degli istituti di factoring. Ci vorrebbe un margine «vero» - e non drogato dalle plusvalenze - di alcune centinaia di milioni per ripagare l’indebitamento finanziario, e così non è. Ecco perché, vista nel suo insieme e pur nella specificità di ogni squadra, la Serie A vive uno stato di perenne sofferenza. E non si vede una via d’uscita credibile al deficit strutturale. L’apporto degli azionisti, in molti casi, risulta essere decisivo – da Suning a Saputo a Squinzi – e sono pochissime quelle in grado di operare in regime di autosufficienza senza ricorrere spasmodicamente alle plusvalenze.
Il problema, banalmente, è che il calcio italiano vive al di sopra dei propri mezzi, avendo raggiunto un livello di spesa (1,4 miliardi gli stipendi della A) troppo alto per i ricavi caratteristici. E il grosso guaio è che si continua a subire, tranne alcune eccezioni, una pesante crisi di competitività a livello internazionale. Anche durante la recessione sono continuati a crescere i costi per gli ingaggi e i trasferimenti, ma non è che sia migliorata la qualità media in campo, anzi. Bisognerebbe fermarsi un attimo e ragionare. Sul piano della razionalizzazione, è necessario un adeguamento serio e reale delle spese sportive alle entrate tipiche: ovviamente non il salary cap, ma un rapporto sostenibile tra stipendi e fatturato netto di ciascun club. Ma parallelamente non si può fare a meno di pensare alla crescita, dopo che per anni ci si è appiattiti sulle rendite televisive. Un club di provincia come la Spal, nel suo piccolo, ha investito 6 milioni tra stadio (comunque con la capienza insufficiente) e centro sportivo per patrimonializzarsi, con la speranza di restare agganciato al treno della A. Bene, qui però serve un piano di investimenti massicci sulle strutture e sul vivaio, che cambi faccia al movimento. Perché le fonti di entrata non possono dipendere così tanto dai diritti tv e dalla partecipazione alle coppe.
Se non si affronta seriamente il tema dello sviluppo - vincolando una fetta dei proventi alle spese virtuose - non si uscirà mai da questo circolo vizioso. A meno di non rassegnarsi a vivere sul filo del rasoio, con le tensioni di cassa (se non peggio) come quotidianità, e a continuare a essere un campionato di mercanti, che rattoppano i buchi di bilancio con le plusvalenze.