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Abbatte i Reds anche senza un rigore negato L’ira di Pallotta: «Inaccettabile, subito la Var o si rischia il ridicolo» Liverpool in finale col Real Madrid
●Mané e Wijnaldum puniscono gli errori giallorossi Non bastano Dzeko e Nainggolan, però l’arbitro non vede un mani in area. A Kiev sarà Liverpool-Real
La Roma è uscita per tanto così. Ha vinto 4-2, ma le serviva il 5-2 per raggiungere i supplementari. Il passaporto per la finale di Kiev contro il Real Madrid se l’è preso il Liverpool. È stata l’eliminazione dei rimpianti, di quel che poteva essere e di ciò che non sarà. La Roma ha pagato il maledetto primo tempo di Anfield, anzi lo scorcio in cui si è lasciata andare e si è spiaggiata sotto le ondate di Salah, Firmino e Mané, quei tre là davanti che nei Reds rappresentano l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Tra quei tre e gli altri c’è un abisso e in franchezza non si capisce oggi come i «rossi» possano sfangarla col Real a fine maggio, anche se il calcio è folle e sovente gli sfavoritissimi si trasformano nei favoriti in corso d’opera. Roma generosa, ma un po’ frenata dal pensiero ricorrente che ogni gol subito avrebbe spostato più in là il limite dell’impossibile. Roma abbastanza derubata, al conto mancano il rigore per il clamoroso mani di Alexander-Arnold e la relativa espulsione del difensore, quando ci sarebbe stato ancora ossigeno per completare la scalata dell’Everest. Il penalty conclusivo, concesso allo scadere, non c’era e ha il sapore amarognolo della compensazione, del buffetto sulla guancia. Un senso di spreco si appiccicherà al ricordo di questa semifinale. Forse è destino che tra Roma e Liverpool vada in questo modo, specie all’Olimpico. La beffa ai rigori del 1984, la grande occasione perduta del 2018.
ROMA PRIGIONIERA Il rammarico è grande perché il Liverpool ha confermato di essere un colosso con i piedi d’argilla. La fase difensiva traballante dei «kloppiani» sembra quasi una scelta, un trucco per attrarre gli avversari il più avanti possibile, sfruttarne il minimo errore e liberare nello spazio la corsa, la velocità e la tecnica di Salah e Mané, le frecce reds azionate dalla regia offensiva di Firmino. Il primo gol però è nato da un passaggio sbagliato di Nainggolan nella propria metà di campo. Sarebbe stato accettabile subire una rete su ripartenza lunga, da area ad area, ma lo 0-1 è stato il più gentile degli omaggi: Nainggolan, a ridosso del centrocampo, ha servito a Firmino la palla del contropiede alto e il brasiliano l’ha capitalizzata con l’assist per Mané. La Roma ha trovato la forza per reagire, il Liverpool l’ha assecondata con la fragilità difensiva di cui sopra. L’1-1 è
stato imbarazzante e merita l’iscrizione al concorso di «auto-gollonzo» dell’anno, rinvio di Lovren addosso a Milner e carambola in rete. L’1-1 dell’amore vicendevole, se tu regali un gol a me io poi ne regalo uno a te. La Roma però ha esagerato con l’affettuosità, Dzeko di testa ha imboccato Wijnaldum per l’1-2. Poi c’è stata sfortuna, sotto forma del palo che ha negato a El Shaarawy l’immediato 2-2. Della Roma del primo tempo si potrebbe parlare in un manuale di psicologia sportiva, è dura giocare con l’obbligo della perfezione: per quanto uno si sforzi di non pensare, il tarlo della mancanza del paracadute di riserva fa il suo sporco lavoro e mina la mente. Peccato, perché il piano tattico era corretto, la pressione avanzata riusciva, più o meno come nel ritorno col Barcellona. Rispetto all’impresa coi blaugrana, è venuta meno la massima sicurezza difensiva, la condizione senza la quale l’impresa sarebbe svanita. Roma prigioniera di un’inquietudine sottile e malefica.
ROMA LIBERATA L’intervallo ha funzionato da detonatore. Via lo psico-tappo, Roma liberata e senza più inibizioni occulte. Quando Dzeko ha fatto 2-2 sull’ennesimo scempio della «non difesa» inglese, per qualche minuto si è fatta strada l’illusione del miracolo bis. Si annusava un’aria buona, la Roma era aggressiva e attenta, mentre il Liverpool tremolava davanti a Karius e i tre davanti non veleggiavano come prima. A frapporsi tra sogno e realtà è stato l’arbitro Skomina, con la collaborazione del guardalinee Praprotnik e dell’assistente di porta Jug. Prima, sull’1-2, il direttore di gara sloveno, su suggerimento dell’assistente Praprotnik ha interrotto per fuorigioco inesistente l’azione che avrebbe por- tato a un rigore solare su Dzeko. Poi, sul 2-2, né Skomina né Jug hanno colto il colossale mani di Alexander-Arnold davanti alla porta su deviazione di El Shaarawy. Sviste gigantesche che seppelliscono l’occhio umano, i giudici di porta tanto difesi da Collina: non esiste che la Champions, la più importante manifestazione del pianeta, più ancora del Mondiale, faccia a meno della Var. Forse esageriamo, ma con il monitor a bordo campo oggi parleremmo di una finale Roma-Bayern. A Kiev andrà il Liverpool, col suo calcio vintage. La Premier League l’ha vinta il City di Guardiola guru del nuovo calcio posizionale, ma davanti a sua maestà il Real si paleserà una formazione inglese che «schifa» il possesso e che gioca il «kick and run», il calcia e corri britannico del secolo scorso. Parliamone, quantomeno.