DA TARDELLI A SALAH SE PESCHI IL JOLLY
L’esigenza di versatilità
La giostra di Juan Cuadrado terzino, ala e di nuovo terzino, appartiene al laboratorio dell’eclettismo che l’Olanda degli anni Settanta innalzò a manifesto del progresso. Non capita spesso di rovesciare il perfido motto del «Gattopardo» - cambiare tutto per non cambiare niente - una sorta di mantra nazionale, rispettoso com’è dell’ambiguità che trovò nell’8 settembre la sua spilla. Il calcio è un armadio di piombo: per spostarne le ante di pochi centimetri, di piccoli spunti, servono sforzi immani che la propaganda tende a moltiplicare, banalizzandoli. E qui si torna a Giuseppe Tomasi di Lampedusa: non basta cambiare il lessico per cambiare il gioco. Nel trasloco da un secolo all’altro, il ruolo è stato bombardato di studi, di pretese, di eccessi. Lo abbiamo indagato e adattato, non solo raccontato.
L’esigenza di versatilità ci ha spinto, quasi per inerzia modaiola, a deportare gli specialisti nella Siberia dei luoghi comuni. Alla Juventus, Marcello Lippi arretrò Gianluca Zambrotta sulla fascia, e fu un trionfo, ma sempre sulla fascia - nella finale di Champions con il Milan, a Old Trafford - allargò Paolo Montero, e proprio un trionfo non fu. All’Inter, su dritta di Rino Marchesi, Salvatore Bagni abbandonò i sentieri dell’ala per dedicarsi a una vita da mediano. E Andrea Pirlo? Chissà se sarebbe diventato il regista che diventò se, a Brescia prima e al Milan poi, Carlo Mazzone e Carlo Ancelotti non avessero acceso lo stesso fiammifero.
Marco Tardelli ha incarnato ed esaltato il senso della «transumanza» tattica. Erano tempi in cui, sui mercati, la polivalenza seduceva più della plusvalenza. Cominciò terzino, da Como alla Juventus ci pensò Giovanni Trapattoni ad avanzarlo a centrocampo, ampliandogli il territorio di caccia. La storia ha reso Marco prigioniero di un urlo. Ben altro è stato lo sviluppo della sua carriera, il peso del suo messaggio. Marcava Kevin Keegan e Diego Armando Maradona come si potevano amare i Beatles e i Rolling Stones.
Oggi che il calcio viene spacciato addirittura per materia scientifica, guai a pronunciare la parola catenaccio. Volete mettere la bellezza randagia di «due muri semoventi» o l’impatto televisivo di «chiudere le linee di passaggio»? Corre, il paradosso, a Massimo Fini e ai suoi libri sulle piroette del linguaggio bellico. Scrivere guerra non è fine: meglio il silicone di «operazione di pace», «operazione di polizia internazionale», «intervento umanitario». A furia di esplorare l’universale, ci stiamo allontanando dal «particulare». Il Mohamed Salah del Liverpool mi è parso molto più verticale del Salah romanista. E proprio perché copre e si sfianca di meno, segna di più. Tardelli rimane l’oggetto dei desideri, a patto che la riproduzione degli eclettici non sfoci nell’ossessione e crei l’opposto: il generico.
La vecchia scuola non ha lasciato macerie. Alludo alla ricerca dello specialista, al ruspante slogan di Osvaldo Bagnoli: il terzino faccia il terzino. Non era una gabbia: era, al contrario, la libertà di fare quello che ognuno si sentiva di fare, in barba ai professionisti dell’anticonformismo.Tutti vorremmo essere Paolo Maldini, il difensore più completo che il vivaio italiano abbia espresso. Bisogna però evitare che le nuove generazioni arrivino frustrate alla meta. Vujadin Boskov aborriva le troppe idee di Gianluca Vialli e Roberto Mancini. Li voleva più essenziali, più «poveri» sotto porta. Gli diedero retta, e la Sampdoria vinse lo scudetto.