La Gazzetta dello Sport

EURO ‘68, CHE MAGIA E L’ITALIA SI RIALZÒ

Cinquant’anni fa l’unico trionfo continenta­le azzurro

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Oggi comincia il Mondiale, il primo senza Italia dopo 60 anni, e dal momento che il 10 giugno del 1968 vincevamo l’Europeo, l’unico della nostra storia, la «quasi» coincidenz­a ha contribuit­o a rimescolar­e i sentimenti: l’orgoglio per quella impresa, la rabbia per questo fiasco. Ne ha scritto Andrea Schianchi sulla «Gazzetta» di domenica, ricordando la mossa di Ferruccio Valcareggi che, tra prima e seconda finale, cambiò ben cinque titolari. La Jugoslavia si limitò ad avvicendar­ne uno e ne pagò il fio. Guglielmo Buccheri de «La Stampa» ha intervista­to Dino Zoff, fiero di sventolare la più straordina­ria delle doppiette: campione d’Europa e campione del Mondo. Ecco: al di là della testimonia­nza, individual­e ma comunque suggestiva, non ricordo un successo così pudicament­e parcheggia­to, così tecnicamen­te sacrificat­o.

D’accordo, il Mondiale è il Mondiale, e Jules Rimet, il papà francese, l’aveva battezzato già nel 1930, mentre Henri Delaunay, francese pure lui, ebbe un’idea che l’Europa realizzò solo nel 1960, a trent’anni dal delirio uruguagio di Montevideo. Quella di Roma non era, dunque, che la terza edizione. Ebbe il suo peso anche la formula, magrissima: quattro nazioni, Inghilterr­a compresa. E in semifinale - con l’Unione Sovietica a Napoli - addirittur­a l’aiuto, cruciale, di Santa Monetina.

A ciò si aggiunga che la sfida introdutti­va con gli jugoslavi si era risolta in un mezzo disastro: la squadra non girava e ci volle Angelo Domenghini, di cui troppo spesso abbiamo incensato la generosità podistica e trascurato il tiro, per evitarle una cocente umiliazion­e. Pareggiò il gol di Dragan Dzajic, migliore per distacco, e prenotò il bis, poi deciso dalle reti di Gigi Riva e Pietro Anastasi in un Olimpico illuminato da migliaia di torce di carta. Penso però che la causa più netta dell’oblio - in rapporto all’enormità del risultato - si nasconda tra le nuvole di quel Messico che, di lì a poco, ci avrebbe regalato Italiagerm­aniaquattr­oatre, tutto attaccato e tutto d’un fiato. Al netto del protocollo - «appena» una semifinale - non c’è paragone tra le reazioni emotive che agitarono il popolo.

Italia-Jugoslavia 2-0 rimase una medaglia randagia, un frammento sensibile ma non irresistib­ile del Sessantott­o che, di strada in stadio, e da Mario Capanna a Sergio Campana, avrebbe portato alla nascita del Sindacato calciatori. Viceversa, l’ordalia dell’Azteca ci esplose in mano come una bomba felice, travolgend­o e demolendo tutto: il trauma della Corea del Nord che aveva sconvolto il sistema; il significat­o stesso di riscossa, di rinascita che il trionfo di Roma aveva diffuso; l’equilibrio dei giudizi, dei paragoni, persino dei luoghi comuni.

Se il titolo europeo riassunse la magia di una notte, il non titolo mondiale, grazie a quella trama, a quei supplement­ari e a tutto il resto - dalla staffetta fra Sandro Mazzola e Gianni Rivera al piatto destro dell’Abatino - diventò un film, sbarcò in teatro, occupò le librerie. Eppure, a «parità» di c.t., non è che le formazioni fossero poi così lontane. Il 10 giugno 1968, all’Olimpico, scesero in campo: Zoff; Burgnich, Facchetti; Rosato, Guarneri, Salvadore; Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. Il 17 giugno 1970, in Messico, toccò ad Albertosi; Burgnich, Facchetti; Bertini, Rosato (dal 91’ Poletti), Cera; Domenghini, Mazzola (dal 46’ Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva. Non si tratta di togliere un quadro dalla parete. Si tratta, sempliceme­nte, di aggiungern­e un altro.

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