E ORA, CARA SERENA, ASPETTIAMO LE SCUSE
La prima reazione di milioni di telespettatori è stata di incredulità: possibile che Serena Williams, una delle più grandi atlete mai nate, sbroccasse in quel modo a quasi 37 anni? Con enorme delusione di chi come noi l’ammira da sempre, abbiamo dovuto prestar fede a occhi e orecchie. L’americana, fino a quel momento strapazzata sul campo nella finale di Flushing Meadows dalla ventenne giapponese Osaka, esordiente a quel livello, inveiva contro l’arbitro dandogli del bugiardo e del ladro, a fronte di sanzioni dovute. E per di più tentava di mettere la vicenda sul piano dei diritti di genere: «Fossi un uomo non mi avreste punita, a loro è permesso anche di peggio». Ah sì? Lo vada a chiedere a Fognini, seppellito dai media e dai giudici dopo bravate analoghe. Parità vuol dire insulto libero? Prima indegno e poi grottesco.
Lasciamo perdere il femminismo, cosa sacra e molto seria, e diciamo le cose come stanno. Serena si è comportata in quel maledetto frangente come il maschio più ottenebrato: arrogante, volgare, crudele e intimidatoria. E ci è ricascata, dato che nel suo curriculum (2009) figura anche un bel «vado a prendere quella fottuta pallina e te la ficco nella fottuta gola, lo giuro su Dio», rivolto a un giudice di linea donna (e sottolineiamo donna). È stata arrogante perché si è posta al di sopra delle regole: di fronte a un ammonimento per segnali vietati del suo coach, s’è rivolta in modo aggressivo all’arbitro, dicendogli più o meno: «Come osi pensare che io infranga le regole e rubi?». Una versione targata Williams del bieco «lei non sa chi sono io». Volgare, perché quelle offese all’arbitro sono brucianti e inammissibili. Crudele perché ha tolto alla giovane rivale quasi del tutto la festa per quello che avrebbe dovuto essere il più bel giorno della vita. Intimidatoria perché ha condito di minacce la sua sceneggiata. Prima o poi lo sport e Naomi Osaka dovranno avere delle scuse. Le aspettiamo. Detto questo, nessuna lapidazione è in corso: non proponiamo servizi sociali o peggio per Serena. Tutti possono avere una caduta, anche pesante. L’essere svergognata di fronte al mondo è già una punizione sufficiente. Resta da capire perché si è scatenata la tempesta, da parte di una campionessa che deve sentire la responsabilità d’essere punto di riferimento anche di fair play. Qualche sospetto l’abbiamo: Serena s’è incagliata a quota 23 nel numero di vittorie nello Slam. Davanti ha le 24 di Margaret Court. Il suo ego non le consente di chiudere la carriera senza aver dimostrato in modo incontestabile di essere la numero uno di ogni tempo. Tutto ciò si traduce in una pressione insostenibile, insieme ad altri eventi della vita, come la maternità o sentirsi una portavoce di molti, forse troppi. Diceva bene l’ex campione svedese Mats Wilander, oggi apprezzato opinionista: «In campo si va da soli e si gioca per se stessi, non si può portare in partita la figlia, il marito, le discriminazioni razziali e quelle di genere. Pesa troppo». Parole di saggezza. Certo è apprezzabile che Serena si batta, nella vita privata e pubblica, per giuste cause: gliene rendiamo merito, siamo con lei. Ma quelle battaglie devono entrare nel tennis giusto in attente dichiarazione post gara. Diversamente, i buoni propositi si tramutano in una gabbia, per evadere dalla quale si finisce per dare del ladro all’arbitro.
P.s.: se Serena vuol sapere perché, pur rimanendo la tennista più forte del regno, comincia a perdere spesso Slam in semifinale o finale, riguardi qualche filmato di quando vinceva come una macchina e si confronti con l’immagine attuale. Altro non serve.