«HO IMPARATO A FARE IL PLAY PRENDENDO A CALCI UN PALLONE»
IL FUORICLASSE CANADESE ORA CO-PROPRIETARIO DEL MAIORCA: «IL CALCIO MI HA FATTO VENIRE IDEE CHE HO TRASFERITO POI NEL BASKET»
«Non sono il Messia del basket moderno. Un pioniere? Beh, forse quello sì». Steve Nash fuori dal campo è incantevole com’era sul parquet, un concentrato di fascino e talento resi unici dalla sua formazione, dal suo essere un bambino che sognava di fare il calciatore diventato leggenda con la palla da basket in mano. Trento, che lo ha accolto come un’eroe (l’Aquila Basket lo ha omaggiato con una maglia personalizzata, col numero 13), è rimasta incantata da questo 44enne Hall of Famer con tanti interessi e tanta voglia di scoprire che cosa gli riserva la vita ora che ha smesso di rivoluzionare il basket. «Faccio tante cose, come il consulente per i Warriors e il co-proprietario del Maiorca di calcio, e volontariamente non una sola – racconta nel backstage del Teatro Sociale, tutto esaurito per la chiacchierata col terzo miglior assistman della storia Nba con 10.335 –. Una delle cose che mi diverte di più è commentare le partite di Champions League in tv. È davvero unico vedere un ex giocatore di basket farlo». Unico, com’era in campo. Com’è riuscito a esserlo? «Visione di gioco, agilità e abilità al tiro: queste tre caratteristiche mi hanno permesso di avere una carriera speciale. Sono stato un grande atleta in un modo non comune, non saltando più in alto degli altri, ma con agilità, grande equilibrio, coordinazione e ritmo. Con la mia efficacia come tiratore e il mio essere un playmaker naturale sono riuscito a superare i miei limiti fisici». E a influenzare il basket che domina l’Nba di oggi. «Siamo sempre influenzati dal passato, io stesso lo sono stato. È una costante, del basket e della vita. Anche se viene spesso fatto il mio nome, non voglio prendermi meriti per come si gioca oggi». Tra quelli che l’hanno influenzata c’è Mike D’Antoni, suo coach in quegli indimenticabili Suns. «Sì, Mike mi ha legittimato. Mi ha permesso di prendere tante decisioni in campo, mi ha lasciato controllare il gioco. Ripeteva sempre: “Non voglio che tu aspetti che sia io a chiamare le giocate”. La fiducia che aveva in me è stata determinante per raggiungere il mio livello più alto. Mike mi ha insegnato come essere il migliore, lasciandomi libero di farlo». Ha vinto 2 mvp, ‘05 e ‘06: i successi di cui va più orgoglioso? «No, preferisco i risultati di squadra, essere stato parte di gruppi diventati meglio di quello che ci si aspettava, che hanno lottato per vincere. Non significa necessariamente aver conquistato il titolo, parlo di stagioni da almeno 55 vittorie e avventure nei playoff fino alle finali di Conference. La cosa più bella però sono le amicizie, i momenti lontani dalle partite in cui le pressioni rendono tutti esseri umani». A Phoenix ha scritto le pagine più belle della sua carriera. Rimpianti per averla chiusa con i Lakers? «Sarei rimasto, ma i Suns volevano voltare pagina. Li capisco. Potevo scegliere tra Knicks, Raptors e Lakers. Il fatto che io sia finito a Los Angeles però non c’entra su com’è andata, perché il mio corpo non sopportava più il mio lavoro di professionista. Sono deluso, speravo di avere ancora qualcosa da dare per aiutare a costruire una squadra vincente». Rimpiange di non aver vinto il titolo? «Spiace non aver provato quelle sensazioni, non aver nemmeno mai giocato le Finals. Ma ho avuto tanti successi in carriera e tanti riconoscimenti. Sono contento per com’è andata e consapevole che non puoi controllare tutto. In fondo la cosa bella del basket e dello sport è che vince uno solo: devi accettarlo». Cosa significa far parte della Hall of Fame? «È un grande onore, un riconoscimento per il duro lavoro e l’impegno che ci ho sempre messo. Ma non vivo per gli applausi. Non penso spesso alla mia carriera, preferisco concentrarmi sulla nuova vita che ho davanti. Anche perché non sono uno che si ricorda ogni momento. Nel periodo che ha preceduto l’ingresso nella Hall of Fame (il 7 settembre scorso, n.d.r.) mi è capitato spesso di rivedere alcune mie giocate: non ricordavo di averle fatte, mi sembrava quasi si parlasse di un’altra persona. Ma sono orgoglioso di quello che ho fatto, mi sento fortunato per aver giocato 18 anni in Nba». Dica la verità, guarda più calcio o più basket ora che ha smesso? «Decisamente più calcio. Il basket mi piace, ma ci ho giocato per così tanto tempo che per me il calcio ora è molto più affascinante. Imparo guardando tutto, dai campionati alle nazionali ai vari tornei». È cresciuto sognando di diventare un calciatore: quanto ha influenzato il suo stile? «Il calcio mi ha permesso di sviluppare idee che ho poi trasferito nel basket. Ad esempio, nel calcio devi cominciare a pensare molto prima che ti arrivi la palla, valutare i possibili spazi che si possono aprire, le posizioni di compagni e avversari: sono tutte cose che ho imparato col pallone tra i piedi e che sono diventate poi importanti nella mia carriera nel basket». Che calciatore sarebbe stato?
«Sono cresciuto sognando di diventare un numero 10 e se avessi continuato magari ci sarei riuscito. Per come gioco ora penso sarei stato un mediano». Chi guarda volentieri, nel calcio e nel basket? «Ammiro Steph Curry e Kevin Durant, giocatori incredibilmente talentuosi che possono creare per sé e per gli altri. Nel calcio sono un tifoso sfegatato del Tottenham ma ammiro tutti i numeri 10. In Italia seguo Paulo Dybala, della Juventus. Ma reputo Leo Messi il miglior calciatore mai esistito».