PAROLA DI MATTEO «L’EUROPA È GIÀ MIA MA NON PUÒ BASTARE»
IL TRENTINO VERSO IL 2019: «DEVO GIOCARMI UNA GRANDE CLASSICA. CON MOSCON? OK, MA VINCO IO...»
E’stato capace di prendersi l’Europa, in una stagione che era cominciata male — infrazione a una costola — e stava continuando peggio, con la rottura di una vertebra alla Roubaix. Nel 2018 Matteo Trentin ha dimostrato di avere una dote rara: saper cambiare, in meglio, il corso degli eventi. E dopo il trionfo continentale di Glasgow in azzurro, è stato al fianco del capitano Simon Yates nella vittoriosa Vuelta e in Cina, al Tour of Guangxi, ha ottenuto il primo successo da campione d’Europa in carica. «Bello. Ma non mi basta di certo, non deve essere che un punto di ri-partenza», dice il 29enne trentino della MitcheltonScott, che è passato nella redazione della Gazzetta prima di partire per Shanghai, dove domani lo attende un criterium organizzato dal Tour de France. Con lui il manager Manuel Quinziato e la compagna Claudia Morandini, ex azzurra di sci alpino e poi commentatrice di Eurosport: hanno due figli, Giovanni e Jacopo. Trentin ha avuto più di un pensiero per il maltempo che a fine ottobre ha colpito il suo Trentino («ero in zona, siamo stati quasi due giorni senza luce. Interi boschi sono stati rasi al suolo, impressionante») e ha mostrato grande interesse per ogni aspetto della vita redazionale e lo sport a tutto tondo, fotografando per esempio l’immagine successiva al «pugno fantasma» di Mohammed Ali a Sonny Liston. Ma al centro di tutto c’è stato il ciclismo agonistico.
Trentin, lei era reduce da un finale di 2017 eccellente: 4 tappe vinte alla Vuelta, il 4° posto al Mondiale, la Parigi-Tours. Dalla Quick-Step era passato alla Mitchelton-Scott con grandi ambizioni, ma all’inizio è stato fortemente frenato dagli infortuni. Come l’ha vissuto?
«Un enorme giramento di scatole. Dopo l’infrazione alla costola, sono comunque riuscito a recuperare per l’inizio delle classiche. Alla Sanremo ero andato dietro a Nibali cercando di riprenderlo, se vi ricordate… ma ero al 90-95% e nel ciclismo moderno non ti puoi permettere di non essere al 100%. Rispetto a quando ho cominciato nei pro’, nel 2011, il livello è salito tantissimo. Vanno tutti molto più forte».
In generale, è apparso meno veloce rispetto al livello che aveva raggiunto a fine 2017. Impressione giusta?
«Sì, ed è quello a cui mi dedicherò di più in questo inverno. La rottura di una vertebra non è un infortunio banale e non ho più raggiunto i valori di fine 2017. Ora devo ritornarci, ritrovare il picco di potenza oltre alla capacità di mantenere in volata valori medi alti per più tempo degli altri».
Dopo un anno, come valuta il passaggio dalla Quick Step alla Mitchelton-Scott?
«E’ stato giusto, perché mi hanno fatto sentire parte centrale di un progetto. E non credo sia vero che chi lascia la Quick Step poi vada più piano, ci sono tanti esempi che dimostrando il contrario. Del team mi piace l’atmosfera rilassata e il fatto che chiunque sia disposto a mettersi in discussione, ascoltando il contributo degli altri. Chiunque. Così si cresce».
Lei è riuscito a vincere tappe nei 3 grandi giri ma nelle classiche monumento di primavera non è mai finito neppure sul podio. E’ il suo obiettivo principale per il 2019?
«C’è anche un Mondiale dal percorso interessante, ma è più avanti, dunque per cominciare sarà certamente così. Se devo ragionare con la testa, il massimo sarebbe il Giro delle Fiandre, mentre il cuore dice Milano-Sanremo. Alla Roubaix, per un motivo o per l’altro, non sono mai riuscito ad esprimermi al massimo».
Che ne dice di un grande derby trentino tra lei e Gianni Moscon allora per la vittoria, in uno qualsiasi di questi tre Monumenti?
«Ci sto, ma a patto che poi sia io a vincere!».
Trentin, lei sembra riuscire a vivere il ciclismo in modo tutto sommato rilassato, lontano dalle nevrosi di alcuni colleghi. Come fa?
«Al Mondiale di Bergen, l’anno scorso, se non mi svegliava Alessandro De Marchi, ero ancora lì a dormire... Semplicemente, la domanda è ‘perché devi essere agitato?’. Sa, io corro perché mi piace. E credo che sia così, in verità, per la maggior parte dei miei colleghi. Altrimenti, perché fare così tanti sacrifici?».