La Gazzetta dello Sport

IL SENSO DELL’AVVENTURA E LA LEZIONE DI DE ANDRÈ

A vent’anni dalla morte del cantautore ligure

- Di REINHOLD MESSNER

Le spedizioni invernali agli Ottomila sono ancora in una fase iniziale. Intanto da più parti è stata fatta chiarezza sulla vera portata della doppia traversata dell’Antartide compiuta quasi in parallelo dallo statuniten­se Colin O’Brady e dal britannico Lou Ruud. Una traversata non assistita, ma decisament­e parziale. Cioè non da costa a costa. È vero che nell’avventura, come in alpinismo, non esistono regole, ma, se si gioca con le parole («impossible first») approfitta­ndo dell’ignoranza oltre che del pubblico anche di alcuni mezzi di informazio­ne, si falsa la realtà. Posso quindi dedicare questa rubrica al ricordo di una persona che non ho avuto la fortuna di conoscere, ma che ho imparato ad apprezzare attraverso la sua musica: Fabrizio De Andrè. Morto 20 anni fa, proprio quando un amico stava cercando di farci incontrare.

Io sono di madre lingua tedesca. In Val di Funes, dove sono nato, l’italiano lo studiavamo a scuola, con fatica. Non lo parlavamo. Così è davvero curioso che la canzone che più amo, che mi capita di canticchia­re, sia proprio una canzone in italiano. Di Fabrizio. Si tratta di «Andrea». La amo non solo perché parla di una storia della Grande Guerra e di un soldato morto, «ucciso sui monti di Trento». Senza specificar­e su quale bandiera fosse caduto. Ma anche per quell’iniziale «s’è perso e non sa tornare» o per quel finale «mi basta che sia più profondo di me». Grazie a quella canzone ho scoperto poi la bellezza dei versi di Fabrizio, che ho anche utilizzato come citazioni in miei libri, come quello su Walter Bonatti. Ce n’è una che mi sembra perfetta per chi vuole vivere l’avventura, quella vera, non quella da spacciare per fama o per soldi. Molto «bonattiana»: «Per la sola ragione del viaggio, viaggiare».

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