«PAPÀ VIVE IN MIA FIGLIA CHE DOLORE LE SCRITTE, TORNERÒ ALLO STADIO»
Vincenzo nei ricordi del figlio Gabriele: «Eravamo una famiglia bellissima, che andava all’Olimpico come in gita. Non ci metto piede da anni, ma per Giulia lo farò»
Oggi nonno Vincenzo vive negli occhi pieni di vita della piccola Giulia, una lazialotta di sette anni che una domenica, guardando sventolare le bandiere della curva Nord, ne ha notata una con un volto familiare. È stato amore a prima vista. Da quel giorno, sa che il nonno è stato un tifoso speciale, e per questo ogni volta che la Lazio gioca allo stadio Olimpico i suoi tifosi lo ricordano sventolando quella bandiera, in quella stessa curva, dove un tempo c’erano i gradoni di marmo su cui Vincenzo Paparelli trovò la morte, colpito da un razzo nautico sparato dal giovane ultrà romanista Giovanni Fiorillo, detto Tzigano, dalla curva opposta, la Sud, prima di un derby. Gabriele, il papà di Giulia, che di anni il 28 ottobre 1979 non ne aveva ancora compiuti nove, racconta di questo incontro speciale con parole semplici, eppure dolcissime. «Giulia, mia figlia, e il nonno stanno cominciando a scoprirsi, stanno cominciando a conoscersi da poco».
Una bomboletta spray
Nella bellissima puntata delle sue «Storie» che Matteo Marani ha dedicato su Sky a quella tragica, maledetta domenica, quando il calcio perse di colpo la sua leggerezza, gli occhi di Gabriele, Gabriele Paparelli, dicono tutto. Ci scorrono gli ultimi 40 anni, quasi tutta la sua esistenza, segnata da una perdita enorme, insopportabile. «Quel giorno mi mandarono dai vicini, ero con loro in macchina, quando appoggiai la testa sul finestrino – racconta – e per la prima volta pensai che fosse morto mio padre, ma scacciai questo pensiero dicendomi: tra tanti papà proprio al mio deve essere capitato?». Un vuoto che Gabriele ha provato a colmare con un impegno, una specie di missione quotidiana. «Cancellare le scritte contro papà che per anni, troppo frequentemente, sono comparse sui muri della città. All’inizio lo facevo per mamma, per evitarle di rinnovare un dolore indicibile, immenso. Giravo con il motorino e una bomboletta spray, ero sempre in azione. Mi hanno aiutato gli amici e i social, dove arrivavano le segnalazioni. L’ultima scritta l’ho cancellata un anno fa, in zona stazione Termini. Ogni volta, per me, è stato come rigirare il coltello nella ferita. Perché tanta cattiveria? Perché infangare la memoria di un padre di famiglia? Non mi hanno consentito nemmeno di vivere in pace, se così si può dire, il ricordo di papà».
Quel giorno
Vincenzo Paparelli aveva 33 anni, la moglie Wanda 29. Mauro e Gabriele, i due figli, 12 e 8. Erano innamorati, erano felici. La sera prima del 28 ottobre, a cena dai nonni, Vincenzo guardò Wanda negli occhi pronunciando queste parole: «Stiamo davvero bene noi, abbiamo due figli, una bella famiglia, non ci manca niente». La moglie rispose: «Non è vero che l’amore finisce, ti amo più di quando ci siamo sposati». E Vincenzo replicò: «Anche io ti amo, siamo indivisibili». Quella domenica non dovevano nemmeno andarci, allo stadio. Si convinsero perché dopo un mattino di pioggia spuntò il sole e Angelo, che con Vincenzo gestiva l’officina a Boccea, cedette il suo abbonamento al fratello. Voleva andarci anche Gabriele, «ma mio padre – racconta – fu irremovibile. Disse che era troppo pericoloso...». Wanda si ustionò per estrarre il razzo dall’occhio sinistro di Vincenzo, poi sull’ambulanza, nel tragitto verso il Santo Spirito, non smise di ripetergli: «Amore, non puoi lasciarmi, abbiamo due figli».
Oggi
Gabriele ha 48 anni e un lavoro all’Ama che ottenne grazie a Walter Veltroni, il sindaco che il 15 dicembre 2005 volle intitolare a Vincenzo Paparelli un giardino lungo via Cornelia. Da anni, non mette piede all’Olimpico. «Ho sviluppato una specie di fobia, ho paura, ma forse per mia figlia riuscirò a vincerla. Stiamo pensando di andare a vedere LazioLecce, dovrebbe essere una partita tranquilla». Il 4 novembre la Regione Lazio lo ha invitato a raccontare la storia di Vincenzo Paparelli agli studenti, con Lionello Manfredonia e Roberto Pruzzo, che quel giorno erano in campo. «La violenza nel calcio è una cosa che ancora oggi mi risulta inspiegabile. Io in questi anni ho pesato ogni parola, consapevole che anche una virgola sbagliata avrebbe potuto riaccendere una miccia, avvelenare il clima. Di recente, mi ha colpito molto il gesto dell’aeroplano fatto da quel tifoso juventino in sfregio alle vittime di Superga. Devi essere proprio senza dignità per fare una cosa del genere. Per me il calcio è l’immagine di una famiglia bellissima, che aveva poco ma a cui non mancava niente, e in cui si andava tutti insieme allo stadio, per godere lo stupore di un campo verde e di una giornata di festa».
Ne ho cancellate tante sui muri di Roma, l’ultima un anno fa. Ogni volta è stato come rigirare il coltello...