GUERRA E GLORIA VITA DI MIRALEM TORNATO IN BOSNIA
Nel suo paese, l’imam è suo omonimo: «Su Facebook mi scambiano per lui». I giorni tragici del conflitto nella ex Jugoslavia
Il cartello dice dritto, per Kalesija bisogna andare dritto. Alle spalle, due ore di auto da Sarajevo tra campagna, casette a due piani e qualche cane che attraversa la strada con curioso senso del pericolo. Davanti, uguale: una strada a due corsie – una per andare a Nord, una verso Sud, autostrade nemmeno in fotografia – e i cartelli «Sobe - Rooms», che invitano a prendere una camera per la notte. Qua e là una moschea, un bambino che gioca a calcio con papà e i trattori, tanti trattori, uno parcheggiato di fronte a casa come fosse una monovolume. Provincia agricola bosniaca. Poi, finalmente, si arriva. Miralem Pjanic è nato a Tuzla, città che purtroppo si conosce soprattutto per i bombardamenti della guerra civile, ma le sue zone sono queste. Qui a Kalesija, nove squadre di calcio e 40.000 abitanti, circondario compreso, i Pjanic hanno ancora una casa. Qui intorno Miralem ha vissuto per un anno prima che papà Fahrudin sentisse nell’aria l’odore della guerra e portasse tutti in Lussemburgo.
La partenza
La storia passa di voce in voce, quasi sempre uguale, e questa volta a raccontarla è Fahro Sinanovic, presidente del centro di cultura locale: «Qui ci sono molti Pjanic e nella loro famiglia ci sono una cinquantina di cugini o parenti calciatori. Papà Pjanic trent’anni fa era un buon giocatore e aveva un’offerta da una squadra del Lussemburgo. Era ancora sotto contratto con il Drina Zvornik, che non voleva rilasciargli i documenti, così Fatima, la moglie, andò a parlare al segretario. Quel giorno aveva Miralem in braccio. All’ennesimo no, Fatima scoppiò a piangere e Mire, che più o meno aveva un anno, pianse insieme a lei. Il segretario per compassione disse il sì definitivo: “Lo faccio solo per questo bambino’. Così partirono». Pjanic cominciò a giocare in Lussemburgo, poi passò al Metz, al Lione, alla Roma, alla Juve e domani sera giocherà Bosnia-Italia, la sua partita. La Bosnia è una nazionale particolare, figlia di una nazione costruita sugli equilibri tra bosniaci musulmani, serbo-bosniaci e croato-bosniaci. Un mix di etnie e religioni – musulmana, ortodossa, cattolica – che ha originato la divisione della ex Jugoslavia.
Storie diverse
Anche le storie dei calciatori sono diverse. Edin Dzeko è cresciuto a Sarajevo, imparando a giocare tra i bombardamenti, con la paura dei cecchini. Rade Krunic è nato al confine, a Foča, in una zona povera a due passi dalla Serbia e dal Montenegro. Pjanic no, fa parte dei ragazzi cresciuti altrove, da famiglie che si sono allontanate ma hanno trasmesso ai figli il senso di appartenenza. Kalesija non per caso gli vuole ancora un gran bene. Qui intorno hanno origine le famiglie di Zlatan Ibrahimovic, una vita per la Svezia, e Luka Jovic, che ha scelto la Serbia, ma il figlio prediletto di Kalesija resta Mire. Si racconta che nel 2010, quando un gol del primogenito dei Pjanic eliminò il Real dalla Champions, la città scese in strada per festeggiare.
Mire e Mire
I ragazzi del Miralem Pjanic fan club recentemente hanno scattato una foto con 50 maglie bianconere spedite da Torino da Mire: sembrano una famiglia allargata. L’uomo di riferimento – e questa è strana – è nato il primo aprile 1990, un giorno prima di Mire, e si chiama Miralem Pjanic. Uguale. Anche lui è in qualche modo un calciatore a livello locale e da qui alla commedia degli equivoci è un attimo. «Mi è capitato di essere contattato su Facebook da ragazze che pensavano di parlare con l’altro Miralem – dice ora -. Alla fine, ho dovuto togliere la data di nascita». Meglio, anche perché Miralem gioca per divertimento e nella vita è un imam, la guida della comunità musulmana locale.
Sedici gol
A due giorni da Bosnia-Italia, l’imam Miralem Pjanic è in un locale di Kalesija e sta parlando con Halid, lo zio dell’altro Mire. Tanto per cambiare, calciatore anche lui: «Nel 1980 io e i miei tre fratelli giocavamo nella stessa squadra – dice -. Halid, Refik, Hariz e Fahrudin, tutti insieme». Miralem però resta un’altra cosa e Halid lo capì presto, in Lussemburgo: «Aveva cinque anni quando ha cominciato e io ho notato subito che era speciale. Aveva un’intelligenza non comune, era così veloce che non lo prendevi mai e poi era così vivace: giocava in casa e rompeva tutto. Ora è molto più tranquillo, credo di non averlo mai visto litigare». Come sempre in queste storie, passare dal ricordo alla leggenda è un attimo e lo zio ha la storia giusta per chiudere la serata: «Un giorno, era piccolo, Miralem tornò da una partita. Io: “Mire, avete vinto?”. E lui: “Sì sì, 16-0”. “E tu quanti gol hai segnato?”. “Tutti e 16, zio”». Lo dice, sorride, poi saluta tutti e torna a casa. Da Kalesija non vuole più scappare nessuno.