DUE DESTINI OPPOSTI PORTANO AGLI SVEDESI
Una parte per il tutto. I due svedesi Zlatan Ibrahimovic e Dejan Kulusevski, che ieri hanno unito con un filo immaginario Milano e Torino, rappresentano quello che sono oggi il Milan e la Juve
Una parte per il tutto. I due svedesi Zlatan Ibrahimovic e Dejan Kulusevski, che ieri hanno unito con un filo immaginario Milano e Torino, rappresentano perfettamente quello che sono oggi il Milan e la Juventus. Anzi, per essere più precisi, quello che sono diventati i due club. Nella parabola di un vecchio fuoriclasse, che dopo otto anni ritrova la società lasciata controvoglia all’apice della carriera, è riassunta la storia rossonera negli anni Dieci del 2000: un declino che si è fatto sempre più profondo col trascorrere delle stagioni, senza che si riuscisse più a trovare la strada per uscire dalle sabbie mobili della stagnazione. Al contrario, l’investimento della Juventus su Kulusevski - 35 milioni di euro, più 9 di bonus, che andranno nelle casse dell’Atalanta, proprietaria del giocatore certifica la potenza dell’impero bianconero, capace di giocare d’anticipo sui rivali per aggiudicarsi il talento del momento e garantirsi così la prosecuzione del proprio dominio. Questo, anche se il ragazzo in forza al Parma arriverà a luglio: il lusso di poter pensare al domani è il più autentico esercizio di potere.
Nel 2010, quando arrivò al Milan, Ibrahimovic stava per compiere 29 anni. Nella prima stagione conquistò subito lo scudetto: il Milan, allora, era la società di calcio della Serie A che produceva più ricavi: 254 milioni di euro. La Juventus, che in quella classifica era terza, preceduta anche dall’Inter, si fermava a 227. Nel campionato vinto dal Milan, i bianconeri finirono settimi, a 24 punti dai rossoneri: non andarono nemmeno in Europa League. L’anno dopo, coinciso con l’arrivo di Antonio Conte e l’apertura dello Stadium di proprietà, la Juve arrivò prima, staccando il Milan di 4 punti: fu il secondo e ultimo campionato di Ibra con i colori del Diavolo prima di questo ritorno. Da allora a oggi, la Juve ha conquistato altri sette titoli tricolori, mentre il Milan ha accumulato un ritardo che, contando anche quello del torneo attuale, arriva a 214 punti. L’ultima apparizione del Milan in Champions risale al 2014 (la Juve nel frattempo ha giocato due finali) e dall’ultima Europa League è stato addirittura escluso per violazioni del fair play finanziario. Quanto ai ricavi, la Juve ha raggiunto quota 494 milioni, mentre il Milan è scivolato a 228.
Non è questa la sede per mettersi a discutere del perché ci sia stata questa clamorosa inversione di ruoli, resa ancora più evidente dal fatto che l’ultima squadra a vincere uno scudetto prima della «tirannide» juventina sia stata, appunto, il Milan. Ma la coincidenza che un talento svedese che quando Ibra venne al Milan aveva appena 10 anni sia oggi l’ennesimo fiore che si mette all’occhiello Andrea Agnelli, mentre il «nonno» del campioncino torna... sul luogo del delitto, si carica evidentemente di un valore simbolico che va ben al di là di ciò che questi due calciatori potranno dare, oggi o domani, ai rispettivi club: piaccia o no, da un lato c’è una scommessa, se non addirittura la mossa della disperazione, di un gruppo che si aggrappa all’antico totem per rivitalizzare un ambiente depresso, nella speranza che il passato si rimaterializzi nel presente; dall’altro un investimento, che come tale è destinato a produrre frutti, i quali a loro volta altri investimenti faciliteranno, in un circolo virtuoso che - come sappiamo - si autoalimenta da quasi un decennio. Che poi Agnelli, inconsapevolmente o meno, si sia preso così, cioè annientando per anni il campionato italiano, la più grande rivincita sul verdetto di Calciopoli, da lui e da molti juventini considerato sommamente iniquo, questo è un altro discorso. Qui interessano i risultati: e quelli sono sotto gli occhi tutti.