IBRAHIMOVIC DAL 2010 AL 2020 IL CARATTERE È SEMPRE LO STESSO
Dieci anni fa, estate del 2010, Zlatan Ibrahimovic si presentò al pubblico di San Siro durante l’intervallo di Milan-Lecce. Era in maglietta, jeans scuri e scarpe da ginnastica. Lo applaudirono e lui gridò nel microfono: «Sono venuto qui per vincere e quest’anno vinciamo tutto». Fu di parola: a fine stagione consegnò al Milan di Berlusconi lo scudetto e lo festeggiò saltellando assieme all’allenatore Massimiliano Allegri. Era un’altra epoca, era un altro Milan, con Nesta e Inzaghi, Pato e Robinho, Seedorf e Thiago Silva. Dieci anni più tardi, inverno del 2020, per la sua seconda sfilata in rossonero, davanti a centinaia di tifosi adoranti che lo aspettano come i fedeli aspettano il Messia, Zlatan Ibrahimovic indossa giacca, cravatta e scarpe griffate. Qualcuno, nel cambiamento di look, potrebbe leggere un imborghesimento del personaggio, meno casual e più glamour, ma poi è sufficiente ascoltarlo per capire che Ibra «versione 2020» è identico, almeno nei discorsi e nelle intenzioni, a Ibra «versione 2010». Non è l’abito che fa il monaco, ma il verbo che va predicando. Nel 2010 veniva dal
Barcellona, cioè da una delle più forti squadre del mondo (se non la più forte), ora arriva dalla California dopo due stagioni con i Los Angeles Galaxy. E qui, molto più che nel modo di vestire, la differenza è sostanza. Sarà in grado Ibra di riportare il sorriso sui volti intristiti, quasi rassegnati, dei tifosi che hanno ancora nella memoria i cinque gol beccati a Bergamo con l’Atalanta? Sarà in grado, con il carisma e magari qualche urlaccio, di rivitalizzare un ambiente che, negli ultimi mesi, ha vissuto in costante depressione? Le scommesse sono aperte e agli inguaribili ottimisti si oppone il partito di coloro che, con razionalità, non s’illudono di rivedere l’Ibra di dieci anni fa, tutto muscoli, potenza, e tocchi da fuoriclasse. Lui stesso, che ha preso la decisione di tornare al Milan dopo averci riflettuto a lungo, ammette: «So che non posso giocare come quando avevo 28 anni, ma i giocatori intelligenti sanno come gestirsi: si può correre meno e tirare di più da 40 metri».
Oltre alla consueta dose di autostima che a qualcuno può sembrare arroganza, non gli manca la consapevolezza, e questo è positivo. L’orologio di Ibra non si è fermato al 2010, lui ha accumulato esperienze, è diventato più maturo e tutto questo bagaglio ora lo consegna al Milan. Non è più quello di prima, lo sa, come sa di essere ormai al tramonto della carriera, ma non è detto che questa fase debba coincidere con la malinconia e con i rimpianti. La grinta che riempie il suo discorso da neo-rossonero è quella di una volta: «Ho voglia di sentire l’erba e la pressione dello stadio: se mi fischieranno, aumenterà l’adrenalina, e a fine partita applaudiranno». Scorrono gli anni, l’uomo invecchia, d’accordo, ma il carattere non cambia. E siccome il carattere è alla base di ogni impresa si può tranquillamente sostenere che il primo passo del nuovo Ibra è stato fatto nella direzione giusta. E ora che il Milan ha ritrovato il suo professor Keating, quello dell’«Attimo Fuggente», c’è da augurarsi che gli studenti, cioè i giocatori di oggi, ne ascoltino la lezione: «Nulla è difficile per coloro che hanno la volontà».