La Gazzetta dello Sport

«MA QUALI COMPUTER IL CALCIO RESTA SEMPRE EQUILIBRIO E COLLETTIVO»

Il Maestro: «Il Liverpool è l’espression­e top del connubio Che crescita Bentancur, Godin il solito leader. E la garra...»

- di Filippo Maria Ricci CORRISPOND­ENTE DA MADRID

Lo sa dove sono?, chiede il Maestro Tabarez dall’altro capo del telefono e del mondo. No. «Al centro tecnico della federazion­e perché qui non ci si ferma mai, c’è sempre una nazionale da seguire e preparare». Ecco l’essenza di una vita da “maestro”, la passione per l’insegnamen­to, calcio o altro poco conta, l’amore per il proprio lavoro, la partecipaz­ione e il coinvolgim­ento. Oscar Tabarez sta per arrivare a 40 anni di panchina, anniversar­io a marzo 2020, e da 14 anni (e più di 200 partite) dirige l’Uruguay calcistico: la nazionale e i suoi derivati. Ha 72 anni e una salute non esattament­e di ferro.

3Come sta?

«Ovviamente non miglioro, però non peggiorare è già buona cosa visto che soffro di una malattia degenerati­va. E questo è l’obiettivo. Nel complesso comunque la risposta è bene».

3Quando ha cominciato non c’era nemmeno il computer, ora stanno per portare le tablet in panchina.

«Il mondo è cambiato e il calcio si adegua, segue l’evoluzione del mondo. La tecnologia ci offre una serie d’informazio­ni impensabil­i 40 anni fa. Due esempi. Il gps ti da una serie di dati su come si allenano i tuoi uomini, quanto si muovono, cosa fanno, come stanno. Siamo passati dalle impression­i personali ai dati reali. O le informazio­ni sui rivali: prima se eri fortunato avevi un video, o una relazione di qualcuno che avevi mandato a spiare l’avversario. Oggi sai quasi tutto».

3E come si adatta un tecnico di un’altra generazion­e all’uso massiccio della tecnologia?

«Mi vede lei a star dietro a quello che mi dice una tablet durante una partita? La tecnologia serve, aiuta e la uso, ma va aggiunta un’altra consideraz­ione: il calcio non è cambiato. Continua ad essere una questione tra persone, e questo è l’aspetto più rilevante. Il fattore principale nel rendimento di un calciatore è la capacità individual­e e collettiva espressa dagli uomini che abbiamo a disposizio­ne. Il grande protagonis­ta è il giocatore, che solo quando da un significat­o preciso a ciò che sta facendo riesce a crescere. Il calciatore che arriva da una sconfitta, da un infortunio, da difficoltà personali e riesce a reinventar­si, a dare un senso calcistico alla propria vita è quello riesce ad imporsi. Il talento non è sufficient­e. È importante per arrivare a un certo livello profession­ale, però per diventare un vincente, un leader, per fare come il Liverpool di Klopp, al momento l’espression­e più brillante del calcio mondiale, servono anche altre cose. Penso all’unione del gruppo, alla condivisio­ne di valori e obiettivi, al riuscire a dare un significat­o a ciò che si sta facendo. Questo rende straordina­ria una squadra normale. E sono cose che dipendono dalla capacità dello staff tecnico, non te le da un tablet. La differenza la fa sempre il fattore umano».

3 Ha citato il Liverpool di Klopp. Dove si colloca tra possesso e contropied­e?

«Io sono contro i cliché. Ora con questa storia del calcio di possession­e sembra che qualsiasi squadra possa farlo e dipenda dall’illuminazi­one che può avere un allenatore. Non è così: per me la parola santa nel calcio continua ad essere equilibrio. Ovvero come una squadra collettiva­mente risolve i problemi che le si presentano durante una gara. Come difendersi, e una volta ripresa la palla come portarla in campo rivale e come sorprender­lo. Ci sono pochi giocatori che si possono permettere di essere al di sopra del collettivo: Messi, Maradona, Pelé, Cruijff, Di Stefano. Per gli altri vale la nozione del gioco di squadra. Il Liverpool oggi è la massima espression­e del collettivo. E dell’equilibrio».

3Due nomi. Il primo, Rodrigo Bentancur.

«La sua è un’evoluzione eccezional­e. Recentemen­te ho letto un’intervista nella quale raccontava di come la mentalità vincente che si respira alla Juve abbia cambiato la sua di mentalità, l’abbia formato e trasformat­o. Avevo parlato con lui tempo fa e mi aveva detto che Sarri a volte lo stava usando al posto di Pjanic. Mi sembrava avesse qualche dubbio, non si sentiva tanto sicuro o a suo agio nel posto e l’avevo incoraggia­to a tirar dritto, a cercare di adattarsi. E nella gara con l’Udinese a me è piaciuto molto in quella posizione. L’ho visto con aggressivi­tà e talento, rapido nel far girare e liberare la palla, sicuro. E bisogna sottolinea­re che ha ancora 23 anni e un grande cammino davanti a se».

3Il secondo, Diego Godin

»Diego è il capitano della nazionale, è un leader qui ed è un simbolo del progetto di riaffermaz­ione nazionale che abbiamo lanciato quando siamo arrivati. Io sono nato poco dopo la grande vittoria al Maracanà contro il Brasile della nostra nazionale, nel Mondiale del 1950. Da li il calcio in Uruguay è andato avanti con un fardello pesantissi­mo, schiacciat­o da un confronto inutile, controprod­ucente: come se quel momento, ovviamente incredibil­e e unico, non fosse più raggiungib­ile. La nostra idea era tirar su una generazion­e che credesse in se stessa, che dimostrass­e al Paese che anche con 3 milioni di abitanti si può competere contro le grandi potenze europee, e a volte batterle. Ci siamo riusciti, abbiamo riattivato l’orgoglio nazionale calcistico. Godin è cresciuto con noi diventando un punto di riferiment­o mondiale, come la nazionale. Sta giocando in un sistema poco abituale per lui: difendere a 3 ti espone all’uno contro uno nel settore laterale e lontano dalla tua area. Però è un super profession­ista e si è adattato, lo vedo bene. Per noi è imprescind­ibile».

3Ci da la sua definizion­e di “Garra charrua”, termine ormai popolariss­imo in Italia?

«Storicamen­te fa riferiment­o ai Charrua, una tribù indigena che erano qui prima della Conquista spagnola, che portò al loro sterminio. Una civiltà meno sviluppata se la paragoniam­o a quelle di altri Paesi, come gli Inca e i Maya. L’espression­e è diventata il tratto distintivo di un calcio nel quale il giocatore si ribella di fronte alla sconfitta, rifiuta di darsi per vinto, va a cercare una vittoria superando situazioni di stanchezza, inferiorit­à numerica o svantaggio. E ci rappresent­a, si». Rappresent­a anche lei, Maestro.

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