La Gazzetta dello Sport

«DA NUMERO UNO MAI UN GIORNO DI RIPOSO LA VAR? UN ARBITRO NON DEVE SBAGLIARE»

Oggi l’ex direttore di gara compie sessant’anni e ripercorre la sua carriera e le sue passioni: «Rifarei tutto, ho sbagliato ma mai perché non ho dato il massimo»

- di Fabio Licari «Uuuh, moltissimo».

ollina, 60 anni vissuti…? «Troppo velocement­e, come accade quando sei contento di quello che fai».

«Molto bene. Ma le aspettativ­e erano sempre altissime. Non potevi prendere un giorno di riposo. Intendo che non potevi dire “se oggi mi impegno un po’ meno fa lo stesso”. Mercoledì UnitedReal di Champions e domenica la Serie B: mi è successo. E per me erano entrambe finali. Anche se a ripensarci oggi un po’ mi spiace una cosa…».

«Se per te tutte le partite sono uguali, finisci col viverle in modo normale. E così i ricordi di una finale mondiale sono meno definiti».

«Forse il giorno in cui mi hanno detto “sei bravo”. Prima era qualcosa fatto senza convinzion­e, a 17 anni. Poi ho capito che avevo qualche qualità. È diventata una sfida».

«In tanti. Il primo è stato il presidente degli arbitri di Bologna, Piani».

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«Se fossi stato bravo avrei continuato. Ma mi sono divertito». «No, perché in quel periodo uno dei miei migliori amici faceva la chemio ed eravamo uguali. Purtroppo lui non ce l’ha fatta. Una situazione che mi ha fatto capire il valore delle cose».

«Se non ci fossero state qualità avrebbe evidenziat­o gli aspetti negativi. Invece ha fatto un po’ da leva in senso opposto…». «Saggio nel senso che non può permetters­i di riflettere troppo prima di decidere. Quello che nella vita di tutti i giorni è impulsivit­à per l’arbitro è un pregio. E se guardo indietro un po’ di follia è servita».

«L’arbitro deve decidere come se la tecnologia non esistesse. L’obiettivo è non averne bisogno perché le decisioni sono corrette ed è per questo che lavoriamo attraverso la preparazio­ne. Poi lui sa che esiste un paracadute che può correggere un errore, anche se l’errore resta: magari voi giornalist­i lo dimenticat­e, ma chi giudica l’arbitro no».

«Ai miei tempi non c’erano neanche le 40 telecamere in 5K».

«Qualcuno ha detto maniacale. Prima della partita, ad esempio, avevo bisogno della massima tensione positiva». «Ho sempre pensato che l’arbitro debba sapere tutto della partita, analizzand­o i video per conoscere tattiche e caratteris­tiche dei giocatori. Ai miei tempi veniva fatto in modo estemporan­eo. Oggi è parte integrante della preparazio­ne».

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«Una cosa molto privata. E una partita non giustifica di certo determinat­e cose». «Anche, certo! Ma almeno erano uno stimolo a migliorars­i. Però davano fastidio lo stesso, vorrei vedere».

«Non è scontato dire: importanti­ssima. Per essere al massimo in quei 90’ sotto i riflettori devi vivere bene tutto quello che hai attorno e la famiglia è determinan­te. A mia moglie sarò sempre grato perché ha cresciuto al meglio Francesca e Carolina mentre io non potevo essere sempre presente come avrei voluto. Quando nasceva la seconda ero a Cagliari ad arbitrare…».

«Quasi bi-nonno. Francesca aspetta un secondo bambino. La prima è femmina, questo ancora non sappiamo».

«Il calcio è lavoro, il basket divertimen­to. Sono nato e cresciuto a Bologna dove è facile avere passione per il basket. Domenica sera mia figlia e il suo ragazzo vedevano il derby e io, accanto, avevo un occhio al telefonino su Pistoia-Reggio Emilia. Se però gioca la Fortitudo diventa tifo e stress».

«Vedo il calcio e registro il basket. Prima il dovere».

«Agnolin è stato un punto di riferiment­o per la mia generazion­e. Il modo di stare in campo, la presenza scenica. E poi anche altri, come lo svedese Fredriksso­n che vidi a Italia 90. A noi dicevano di non indicare la direzione della punizione, saremmo sembrati dei “vigili”, lui lo faceva con naturalezz­a. Cominciai a imitarlo. Oggi è normale».

«Tanti bravi. Non era importante che somigliass­ero a me, anzi: la qualità nella diversità».

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«Niente nomi. A 60 anni è bello incontrarl­i in contesti diversi e sentire che stima e rispetto non sono formali».

«Rifarei tutto. Ho sbagliato, e ci mancherebb­e, ma nessun errore perché non ho dato il massimo. Allora sì avrei rimpianti».

«Sono cresciuto a Bologna: da bambino era normale tifare rossoblù. A 14 anni, giocando da libero, mi piaceva Pino Wilson e simpatizza­i per la Lazio campione d’Italia: ma non avevo la minima idea che avrei fatto l’arbitro. Come si può pensare che un arbitro, un giocatore, un giornalist­a non sia anche stato tifoso? Ma poi subentra la profession­alità. Tifi solo per te stesso. Per la cronaca: ho arbitrato il ritorno di Bologna-Parma, spareggio per non retroceder­e, nella mia città, dove ho tanti amici. Il Bologna ha perso ed è retrocesso. E la Lazio

non ha mai vinto nelle prime nove partite arbitrate da me. Sa una domanda che non capivo?».

«Mi chiedevano “preferisce l’Italia o lei in finale?”. Sono orgoglioso di essere italiano ma non deve sorprender­e se dico che preferivo arbitrare io. Avevo lavorato ogni giorno della mia vita per questo».

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«Da arbitro sei padrone del tuo futuro, da allenatore il tuo futuro dipende da altri».

«A chi pensa che vivere sotto scorta sia uno status-symbol dico che i sette mesi vissuti così sono stati i peggiori della vita della mia famiglia».

«Destra, da sempre. Giorgia Meloni sarebbe un buon leader». «Al momento dell’1-1 mi sono detto “altri 30 minuti…”, temendo potessero mettere in discussion­e la mia bella partita. Neanche il tempo di pensarci ed ecco il 2-1».

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«Di continuare a fare le cose che mi piacciono, come lavorare alla preparazio­ne di Qatar 2022 e Mondiale femminile 2023 perché siano meglio di Russia 2018 e Francia 2019. E di viverlo con le persone a cui voglio bene».

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