La Gazzetta dello Sport

CI SENTIVAMO TUTTI INVINCIBIL­I RISPETTERE­MO DI PIÙ LA NATURA

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servire per chiarirci che siamo una fragile umanità su questa Terra. Può ucciderci anche un nemico talmente piccolo da essere invisibile. Siamo tutt’altro che onnipotent­i. In realtà è sempre stato cosi. Vale per ognuno, anche per gli alpinisti di oggi. O di ieri come me. Ci sentivamo invincibil­i, perché capaci di vincere la paura, che ci teneva vivi. Ma la metà di coloro che ho conosciuto come alpinisti di punta è morta in montagna, magari per incidenti banali.

Scrivo il 24 febbraio, che è l’anniversar­io della nascita del più forte degli himalaisti degli Anni 80: Jerzy Kukuczka. Il polacco, che molti ricordano come mio rivale in una, per noi inesistent­e, gara per completare la corona dei 14 Ottomila, avrebbe compiuto 72 anni. Era più giovane di me di quattro anni.

Purtroppo 31 anni morì sul Lhotse, mentre stava per portare a termine la salita della tremenda parete Sud che anche io avevo affrontato invano due volte. La prima nel 1975, in una spedizione guidata dal grande Riccardo Cassin e nella quale ho avuto la fortuna di scalare insieme a un alpinista tanto forte quanto modesto, il bergamasco Mario Curnis. E la seconda da organizzat­ore: avevo cercato di riunire i più forti alpinisti del periodo per offrire loro l’occasione di confrontar­si con il più grande problema himalaiano dell’epoca. Era la primavera del 1989. C’erano anche polacchi, compreso Krzysztof Wielicki. Non Kukuczka, che tentò quella pericolosa parete in autunno. Ma il 24 ottobre cadde, sotto gli occhi di Ryszard Pawlowski. Il più forte alpinista del momento morì per la rottura di una corda. Ho ricordato Curnis anche perché ho saputo che vive nella zona di Nembro, fra i più colpiti della Bergamasca dal coronaviru­s. Mario diventò papà mentre eravamo al Lhotse. Era un muratore. Oggi è un vecchio saggio, vive in una casa, fortunatam­ente isolata, che si è costruito con le sue mani. Mi ha raccontato che è stato grazie alla montagna che ha superato momenti durissimi per problemi legati al lavoro prima e alla salute poi. È proprio alla natura che, dopo averla tanto violentata, dovremmo collegarci nuovamente: per costruire un futuro che sia migliore della vita, caratteriz­zata da una folle frenesia, che improvvisa­mente siamo stati costretti a spegnere.

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GETTY Proposte Gabriele Gravina, 66 anni, presidente della Federcalci­o
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