La montagna sfruttata senza pensare al futuro
Avevo concluso l’ultima rubrica scrivendo che il terzo periodo dell’alpinismo sugli Ottomila è stato quello della rinuncia. Oggi siamo arrivati a quello dell’annuncio. Tralascio le spedizioni commerciali, perché ciò che propongono è solo un turismo d’alta quota.
Il nuovo “sviluppo” consente ottimi “ritorni preventivi” d’immagine. Basta saper comunicare sui social e contare su un pubblico possibilmente smemorato. Così il grande — il più grande possibile — obiettivo sbandierato per tutti i mesi del lungo avvicinamento alla spedizione, al ritorno può diventare l’obiettivo che in realtà era programmato per la spedizione successiva e magari anche per quella dopo ancora. Ma ora anche i troppi annunci, destinati a essere seguiti da pochi e parziali fatti, sono stati fermati dalla pandemia. Il Nepal spera ancora di poter aprire le montagne nella stagione autunnale. Agenzie propongono spedizioni a Everest, Dhaulagiri, Cho Oyu e Manaslu. Saranno possibili? Me lo auguro per gli sherpa e, ovviamente, per gli alpinisti veri, che stanno cancellando anche le spedizioni estive agli Ottomila del Pakistan, dove purtroppo il virus sta ancora colpendo.
C’è il serio rischio che nel 2020 quella cinese sul versante tibetano dell’Everest resti la sola spedizione himalaiana, dopo quelle invernali. Ha portato in vetta una cinquantina di persone. Oltre al 5G: un altro piccolo passo per snaturare il Tetto del Mondo, come è già stato fatto col Tibet intero, per cancellarne la cultura. Minoritaria, come quella delle tribù selvagge della foresta amazzonica, che rischiano di scomparire, insieme a fauna e flora uniche, a causa della deforestazione e ora anche del coronavirus. Sia in Himalaya sia in Amazzonia avviene quello che, in altri modi, è stato fatto in passato e continua a essere fatto anche oggi sulle nostre montagne: sacrificare la natura pensando a ritorni immediati, senza guardare alle conseguenze a lungo termine. Nemmeno la pandemia ha fatto aprire gli occhi. Eppure abbiamo visto come la montagna sia la migliore soluzione per un distanziamento fisico divenuto improvvisamente preferibile, anche se — speriamo — non più indispensabile.
Ma i progetti che vengono finanziati sono sempre dello stesso tenore, sulle Alpi come sugli Appennini. Ancora consumo di territorio. Milioni di euro investiti per costruire nuovi impianti, sacrificando ettari di bosco in zone in teoria tutelate, come si vuol fare sul Terminillo. E questo anche se le
A crescere sarà lo scialpinismo. Ma si stanziano soldi pubblici per costruire o allargare piste. Anche a soli 600 metri di quota, come in Trentino. In Svizzera invece lavorano a una quota sei volte superiore. Per un altissimo collegamento fra le piste della elvetica Zermatt e quelle di Cervinia. Al di là della maestria di aziende capaci di costruire impianti a fune che resistano alle prevedibili tempeste dei circa 3800 metri di quota, si tratta di un nuovo intervento destinato a soddisfare una clientela selezionata e amante degli agi (ci saranno sedili riscaldati nelle cabine). A una quota così alta si faranno meno danni: non c’è molto da distruggere. Tranne — come sull’Everest — l’idea di spazi ancora selvaggiamente naturali.