Furto a casa di Diletta Leotta Via 150 mila euro in soldi e gioielli
Da Chen Feng a Friedkin, quei no pagati caro. Il presidente sempre più solo. E le rivoluzioni al vertice non hanno mai portato vittorie
Quanto può resistere un sogno? La storia non dà certezze. Nel 2011, ad esempio, alla Casa Bianca c’era un presidente che aveva come slogan: «Yes, we can», nel 2020 ce n’è un altro che alza una barriera davanti al Campidoglio di Washington per non ascoltare un altro slogan: «Black lives matter». Obama e Trump, avversari e sodali, tutti hanno il proprio sogno, spesso assai divisivo. Ecco, in questi nove anni il mondo è cambiato anche alla Roma, che sembra passata – calcisticamente parlando - dal «noi possiamo» al «non riesco a respirare», la frase che la morte di George Floyd ha imposto all’agenda del mondo. Già, perché per via dei conti sempre più a picco, il club giallorosso non riesce più a respirare. Ma a far scolorire il sogno di quel 2011, quando la nuova proprietà statunitense – guidata prima sottotraccia e poi come presidente da James Pallotta – spodestò la indebitatissima famiglia Sensi a furor di popolo, non sono solo i circa 330 milioni di debito o i 130 milioni di perdite che racconterà il bilancio a giugno. Probabilmente, non è neppure quello zero nella casella dei trofei vinti che immalinconisce ogni tifoso, condannato – in misura diversa – ad aver visto vincere in questi anni Juve, Lazio, Milan e Napoli. In realtà c’è dell’altro, che si può ricondurre per certi versi alla fine della speranza. Perché ce n’è stata tanta, incarnata in quella specie di formazione ideale che potete vedere qui accanto. Costruita e poi venduta, nel tempo, senza lasciare traccia, se non nei bilanci. Quanto basta, ieri, perché il compleanno della Roma (il 93°), festeggiato dai media del club sui social, si sia trasformato in un boomerang per via delle contestazioni ricevute da parte di migliaia di tifosi. Insomma, la frattura con l’ambiente è palpabile, tanto che sembra di esser tornati ai giorni degli addii di Totti e De Rossi.
La frattura col tifo
La domanda è: ora che cosa resta dell’ambizione? Chiariamo alcuni punti fermi: Trigoria è diventato uno dei migliori centri sportivi, c’è una nuova (e bella) sede amministrativa e la società è diventata una «media company» di alto livello, ma l’ambizione sportiva – pur coniugata agli affari – è altra cosa, ed è quella che brucia poltrone. Così si sono alternati 2 presidenti (DiBenedetto e Pallotta), 2 vice presidenti (Tacopina e Baldissoni), 5 fra a.d. e ceo (Fenucci, Pannes, Zanzi, Gandini e Fienga), 3 d.g. (Baldini, Baldissoni e in pratica Calvo), 4 direttori sportivi (Sabatini, Massara, Monchi e Petrachi) e 8 allenatori (Luis Enrique, Zeman, Andreazzoli, Garcia, Spalletti, Di Francesco, Ranieri e Fonseca). Quanto basta per passare da «la Roma sarà una regina» (copyright: DiBenedetto) a «dubbi significativi sulla capacità di continuare a operare come un’entità in funzionamento» (copyright: ultima trimestrale).
Chen Feng & Friedkin
Una cosa è certa: se è vero che Fonseca – con una grande risalita – può ancora cambiare l’inerzia della stagione, l’impressione è che Pallotta abbia forse perso un po’ del suo fiuto degli affari. Il suo no all’ingresso del magnate cinese Chen Feng (42 miliardi di patrimonio) nel gennaio 2014 e quello opposto alla cessione a Dan Friedkin un paio di settimane fa, ad esempio, lasciano stupiti. Non dubitiamo che presidente e soci abbiano speso tanto (oltre 330 milioni), che entro dicembre verseranno altro denaro, che la caccia a eredi o soci continuerà, che – se il ceco Vitek non troverà l’accordo con UniCredit – acquisteranno i terreni di Tor di Valle per costruire lo stadio e che persino riuscirà a tenere Zaniolo e Pellegrini, ma il sogno di quel 2011 – o solo di quella notte di due anni fa in cui fu battuto il Barcellona – difficilmente tornerà ad essere sognato. E forse è proprio questo il peccato più grande.