DALLA NBA AL CALCIO: CONTRO L’AMERICA RAZZISTA LO SPORT NON GIRA LE SPALLE A CHI STA SOFFRENDO
Per capire in profondità il senso della decisione dello sport americano di fermare contro il razzismo gran parte delle sue attività, bisogna fare uno sforzo di immedesimazione, difficile forse per chi non vive quella realtà.
Un afroamericano oggi è tornato a sentire che i suoi diritti, primo tra tutti quello alla sicurezza personale, sono messi in discussione.
Un afroamericano sa che, se verrà fermato dalla polizia, specie in certi stati, avrà un trattamento diverso da quello dei bianchi.
Il ginocchio piantato da un poliziotto sul collo di George Floyd, i colpi di pistola sparati alle spalle di Jacob Blake sono solo un ulteriore anello di una catena di episodi che hanno sconvolto l’America. Un afroamericano ha, dicono le statistiche, più del doppio delle possibilità di essere ucciso rispetto a un bianco durante un controllo delle forze dell’ordine.
Sono rimaste negli occhi del mondo le immagini di Michael Brown, un diciottenne colpito per sei volte da colpi sparati da lontano in Missouri, o quelle della moglie di Philando Castile, trentadue anni, che piange nella sua auto avendo a fianco il corpo del marito ucciso e sul sedile posteriore sua figlia di quattro anni. La vita quotidiana degli afroamericani è costellata dalla permanenza di un pregiudizio che produce discriminazione, abuso del potere, violenza. Non bisogna dimenticare, nel giorno in cui a Washington si ricorda la marcia del 1963 conclusa con il discorso di Martin Luther King “I have a dream”, che fino a poche decine di anni fa in molti stati del Sud agli afroamericani era impedito di frequentare le stesse scuole, gli stessi autobus, gli stessi ristoranti dei bianchi.
Nasce dal ritorno di quella sofferenza la dimensione senza precedenti della protesta degli sportivi americani. Ha preso le mosse dagli atleti della Nba che, dopo aver indossato maglie con slogan contro la violenza, hanno deciso di bloccare per qualche partita addirittura i playoff, ma si è sviluppata poi in molte altre discipline. Perfino nel tennis, dove la maggioranza degli atleti è, da sempre, di pelle bianca.
Nel lunare scenario di Disneyworld, una bolla separata dal mondo, a un certo punto si è levato un grido. Che ha fatto rumore in tutto il mondo. Lo sport americano ha conosciuto gesti anche più forti, come quello di Smith e
Carlos, un pugno guantato di nero durante le premiazioni dei 200 metri piani, all’Olimpiade del 1968 in Messico. Ma la solidarietà alla battaglia del Black Lives Matter si espande a tutte le discipline: dai piloti di Formula 1, guidati da Lewis Hamilton, a tanti calciatori con la coscienza attiva quanto il loro talento. Si è raggiunto un punto limite, evidentemente. Si può dire che lo sport non dovrebbe avere a che fare con vicende che apparentemente non lo riguardano? Che lo sport è laterale rispetto alle tensioni del mondo nel quale esso, ogni giorno, si svolge? Io credo di no. Lo sport non può e non deve mai accettare strumentalizzazioni di parte. Ma alla radice di ogni competizione c’è sempre l’eguale condizione dei concorrenti. È l’anima, il senso dello sport. E i grandi atleti hanno sempre aiutato il mondo, con i loro gesti civili, a combattere le discriminazioni. Si pensi solo a Muhammad Ali o ad Arthur Ashe. In questo momento gli Usa vivono in una condizione di estrema tensione e di forte radicalizzazione. Alle proteste civili contro gli episodi razzisti sono seguite gravi violenze e saccheggi che hanno colpito molte città. Questo clima è ora esasperato dalla legittimazione politica che hanno avuto le reazioni di chi si arma per farsi giustizia da sé. In Wisconsin, dove Jakob Blake lotta tra la vita e la morte, un ragazzo bianco di diciassette anni, affiliato a una “milizia armata”, ha imbracciato un fucile e sparato, uccidendo due persone. La sorella di Blake ha dichiarato: «Non sono triste, non sono dispiaciuta. Sono arrabbiata. E stanca. Non ho pianto, ho smesso di farlo da tempo: sono anni che vedo la polizia uccidere persone che mi assomigliano».
Lo sport non gira le spalle a chi soffre. LeBron James ha detto una volta: «C’è stato un tempo in cui gli atleti sentivano di non dover parlare di certe cose o non avevano il coraggio di commentare le cose che succedevano. Noi non staremo zitti a palleggiare». C’è forse da chiedersi se sia meglio questo atteggiamento o il silenzio degli atleti russi di fronte all’avvelenamento di un dissidente? «Non staremo zitti a palleggiare» è l’idea dello sport come educazione, civiltà, rispetto di ciascuno.