Magie e lezioni a 60 anni dall’Olimpiade di Roma
In questi giorni, giusto 60 anni fa, si disputava l’Olimpiade di Roma 1960: una tappa memorabile per i Giochi e per l’Italia...
Max Domestici
Non amo le mitizzazioni, che spesso mistificano e nascondono pagine amare. Anche quell’edizione lasciò, per esempio, una scia di speculazioni edilizie (e di debiti) da alcuni denominato “il secondo sacco di Roma”. E conquistò il triste primato del primo morto in gara per doping, il corridore danese Knud Enemark Jensen, 24 anni, vittima di una caduta e del cocktail di amfetamine che aveva assunto per la cronometro a squadre. Anche l’etichetta di “ultima Olimpiade dal volto umano” profuma di retorica: Tokyo quattro anni dopo non fu diversa, pur nelle profonde differenze culturali e ambientali.
Ma Roma olimpica ci lascia suggestioni che superano tutto: il suo mix di antico e moderno, in una cornice di incomparabile emozione, non potrà mai essere nemmeno avvicinato. La potenza simbolica dell’etiope Abebe Bikila che taglia il traguardo della maratona da vincitore a piedi nudi sotto l’arco di Costantino non ha eguali. Il passato, il presente e il futuro si fusero in un momento magico. Anche con il suo carico di ricordi dolorosi: quell’uomo di colore veniva proprio dal Paese che pochi decenni prima l’Italia fascista di Mussolini aveva occupato, con tanto di armi chimiche. Lo sport vince su tutto, prima o poi, dittature e razzismo compresi. La ginnastica alle terme di Caracalla e la lotta nella basilica di Massenzio sottolinearono questo fenomenale uso della macchina del tempo, che solo la nostra capitale può mettere in campo. “Caput mundi” non è solo uno slogan autocelebrativo: nessuna città al mondo, fuori dalla Grecia, può offrire di meglio ai Giochi
Olimpici. Alcuni eventi, come la già citata corsa di Bikila nella notte dell’Appia Antica illuminata dalle fiaccole e il volo delle colombe bianche sui 200 metri trionfali di Berruti, sembrarono tocchi di soprannaturale, per chi ci crede.
Ci furono poi i contributi architettonici di vere archistar dell’epoca, come Nervi e
Vitellozzi. In particolare il restyling dello stadio Olimpico, poi purtroppo demolito per la far posto alla struttura odierna, era uno spettacolare richiamo agli impianti di Roma antica, con i suoi gradoni biancomarmo e lo sfondo delle colline e dei pini. E ci furono i campioni, naturalmente, molti fenomenali: da Benvenuti a Clay-Ali, da Hary a Berruti, dalla Rudolph a Dawn Fraser, e tanti altri. E c’era, alle spalle di tutto questo, un’Italia allo stato (ri)nascente, dopo le miserie, gli strazi e le vergogne del fascismo e della guerra. Un’esplosione dì vitalità e di gioia straordinari. Molto grave che, rinunciando alla candidatura del 2020, si sia dato un calcio a una nuova ripartenza davanti agli occhi del mondo. L’Italia ne avrebbe avuto bisogno come allora, forse di più.