Smith&Carlos I nonni del ‘68 orgogliosi della rivolta
Tommie Smith e John Carlos, in fondo, altri non sono che i nonni dei giocatori Nba che boicottano i playoff. Tommie Smith e John Carlos, con al cielo i pugni chiusi guantati di nero, ai piedi solo calzini dello stesso colore e il capo chino, su quel podio quello dei 200 dell’Olimpiade di Città del Messico 1968 hanno dato per primi il la alle proteste. Al risuonare delle note di The Star Spangled Banner, l’inno statunitense, fecero il saluto del Black Power, pacifica protesta contro ogni forma di discriminazione razziale. L’onda provocata è stata lunga. Lunghissima. Ma il contesto e la società, mezzo secolo e più fa, erano ben diversi da quelli di oggi. Il gesto, figlio di una coraggiosa scelta, scatenò un enorme dibattito, anche politico. Divise l’opinione pubblica e la squadra olimpica a stelle e strisce. Persino gli atleti di colore al proprio interno. La maggioranza, in generale, li additò, disapprovando l’idea di sfruttare il palcoscenico a cinque cerchi per tali dimostrazioni. Il comitato olimpico nazionale li espulse dai Giochi e li spedì a casa con ignominia. Si arrivò a minacce di morte. Ci sono voluti tanti, troppi anni affinché i due venissero riabilitati.
Frank Vogel, allenatore dei Los Angeles Lakers, martedì ha svelato che di recente la sua squadra ha parlato con Carlos proprio di quei giorni. «Quello che più mi ha colpito del suo racconto - ha detto - è che non decise di protestare una volta conquistata la medaglia. Ma che il suo obiettivo era di mettersi in luce così da poter poi fare quel che fece». John, newyorkese di genitori cubani, 75 anni compiuti in giugno, ha vissuto l’infanzia ad Harlem, vedendo in faccia fame e povertà. Da ragazzino infranse diverse volte la legge per aiutare i più bisognosi. Faceva irruzione nei vagoni di treni merci fermi in stazione e rubava cibo per distribuirlo ai residenti del quartiere messi peggio. «Il Signore mi ha dato il talento di correre forte – ricorda spesso - e io l’ho sfruttato per diventare un piccolo Robin Hood. I poliziotti non riuscivano a prendermi, per loro ero troppo veloce». Nacque così il Carlos atleta: qualcuno lo vide sprintare nelle strade del ghetto e gli suggerì di provare ad allenarsi in pista...
«I ragazzi che in queste ore protestano - ha dichiarato John ieri - hanno tutta la mia stima per quello che hanno fatto. Perché occorre forzare la mano per far reagire la gente. E il loro boicottaggio fa sapere ai poteri forti, che si tratti dell’Nba o di qualsiasi organizzazione o azienda, che è necessario alzare la voce, che devono prendere sul serio la questione. Subiranno conseguenze, ma capiranno da che parte stanno gli altri. Se si arriva a rinunciare a qualcosa che si ama, come giocare a basket, significa che la misura è colma. I giocatori dei Milwaukee Bucks si sono uniti e hanno detto: “Questo è troppo”». E il nonno è orgoglioso di loro.
Siamo persone prima che atleti e quello che succede colpisce duro anche noi