UNR9SSI PARTICOLARE
Si disse, e lo diceva di se stesso, che Paolo Rossi aveva fermato il tempo. E poi ne aveva creato uno nuovo: era vero. Il tempo di guardare ancora il mondo dall’alto in basso, più di quarant’anni dopo l’ultima volta e più di sempre. Il tempo di un nuovo centravanti, soprattutto. Il prototipo di un giocatore che non era considerato attendibile per il calcio che si stava giocando: inaspettato, e incompreso nel senso di indecifrato (che poi fu la sua fortuna). Imprevisto, come ogni novità che si fatica a catalogare. Insperato, si sarebbe ammesso più tardi.
Prima di Pablito
A cavallo fra il decennio precedente e quello della sua apparizione - non ancora consacrazione - l’uomo gol in Italia aveva sembianze opposte a quelle di Pablito: la regola erano i chili, i muscoli e la potenza di Pierino Prati, di Gigi Riva, di Roberto Boninsegna, di Giorgio Chinaglia, di Ciccio Graziani. La tracotanza del fisico come compagna, all’appuntamento con l’esultanza. Pietro Anastasi era già un canto fuori da quel coro, ma rispetto a ciò che avrebbe fatto vedere Rossi attaccava la porta in modo diverso. E diversamente usava lo scatto e il tiro, oltre che un fisico comunque resistente, robusto. Come quello di Gerd Müller, modello straniero di un attaccante che in Italia praticamente non esisteva: il tedesco e il gol sembravano una cosa sola, una legge che pareva dipendere da qualcosa di invisibile. Qualcosa che non gli si poteva vedere addosso, perché non era attaccata al corpo, ma dentro.
Il nostro Müller
Fu in questo che Paolo Rossi diventò il nostro Müller: il senso per il gol come essenza del suo calcio, e il resto era contorno. Erano mezzi che non sembravano all’altezza del fine. Eppure. Eppure Paolo Rossi
Un’apparizione Prototipo di un modo diverso di fare la punta: il nostro Müller
era sempre dove doveva essere, al centro del suo mondo, sovrano assoluto del regno dell’area di rigore. Una splendida eccezione, una divagazione sul tema del centravanti grande e grosso che si era fatto dogma: lo abiurò con il suo metro e settanta e poco più e i suoi settanta chili scarsi, a volte anche molto scarsi, come prima del Mondiale ‘82 dove arrivò sotto peso e ci si chiedeva come avrebbe fatto. Con quel torace che sembrava non aver conosciuto mai una palestra. Con quelle braccia sottili e inutili per prendere posizione come facevano i colleghi che andavano di gomito, ma indispensabili per calibrare gli equilibri di centravanti che giocava sul filo di tutto. Con quelle gambe che erano l’unico concentrato di tutta la sua forza.
La leggerezza
Era intelligente, Paolo Rossi. E la sottoqualità della furbizia nello studiare l’azione, i difensori avversari gliela leggevano negli occhi: avevano bruschi lampi di irrisione e a volte sembrava averli dietro la testa, come quella volta - Italia-Argentina ‘78 - che liberò Bettega con un colpo di tacco. Roba che ai tempi era solo per i fantasisti, non certo per chi viveva dentro l’area. Ma soprattutto era leggero, Paolo Rossi: un attaccante piuma che all’improvviso sconfessava il tempo dei bisonti. La leggerezza non era solo la sua diversità: era la sua forza, diventava mistica dello “sparisco e poi riappaio”. Il suo codice illeggibile.
Calamita da gol
Chi lo aveva preceduto viveva il gol come una fatica, quasi una liberazione fisica: per lui era un galleggiamento lieve verso la porta. Rossi annusava il gol: come un veggente, sentiva che stava arrivando e lo leggeva prima. Ne era attratto come una calamita quando non era lui ad attrarlo: a volte sembrava fosse il pallone a chiamarlo, senza il bisogno di andarlo a cercare. Difficilmente reggeva lo scontro fisico che imperava dentro le aree di rigore, ma bisognava prenderlo prima di fermarlo: era più facile essere costretti a buttarlo giù.
La nostalgia consolata
Quando smise, diventò inevitabile pietra di paragone per chi faceva il suo stesso mestiere. Si provò a rivedere Paolo Rossi in Galderisi e poi in Schillaci, ma avevano un altro fisico, un’altra sostanza. L’unica reincarnazione accettata da tutti fu Inzaghi, che oggi lo saluta come «fonte di ispirazione». Era arrivata un’epoca di nuovo proprietà di padroni imponenti come Vieri, Toni, Gilardino: per conformazione, intuito, attrazione fatale per la porta, Pippo fu l’erede finalmente ritrovato, e riconosciuto (anche da lui), della leggerezza del gol di Pablito. Paolorossi tutto attaccato, come poi Pippoinzaghi: la nostalgia incancellata, ma consolata.