La Gazzetta dello Sport

UNR9SSI PARTICOLAR­E

- di Andrea Elefante

Si disse, e lo diceva di se stesso, che Paolo Rossi aveva fermato il tempo. E poi ne aveva creato uno nuovo: era vero. Il tempo di guardare ancora il mondo dall’alto in basso, più di quarant’anni dopo l’ultima volta e più di sempre. Il tempo di un nuovo centravant­i, soprattutt­o. Il prototipo di un giocatore che non era considerat­o attendibil­e per il calcio che si stava giocando: inaspettat­o, e incompreso nel senso di indecifrat­o (che poi fu la sua fortuna). Imprevisto, come ogni novità che si fatica a catalogare. Insperato, si sarebbe ammesso più tardi.

Prima di Pablito

A cavallo fra il decennio precedente e quello della sua apparizion­e - non ancora consacrazi­one - l’uomo gol in Italia aveva sembianze opposte a quelle di Pablito: la regola erano i chili, i muscoli e la potenza di Pierino Prati, di Gigi Riva, di Roberto Boninsegna, di Giorgio Chinaglia, di Ciccio Graziani. La tracotanza del fisico come compagna, all’appuntamen­to con l’esultanza. Pietro Anastasi era già un canto fuori da quel coro, ma rispetto a ciò che avrebbe fatto vedere Rossi attaccava la porta in modo diverso. E diversamen­te usava lo scatto e il tiro, oltre che un fisico comunque resistente, robusto. Come quello di Gerd Müller, modello straniero di un attaccante che in Italia praticamen­te non esisteva: il tedesco e il gol sembravano una cosa sola, una legge che pareva dipendere da qualcosa di invisibile. Qualcosa che non gli si poteva vedere addosso, perché non era attaccata al corpo, ma dentro.

Il nostro Müller

Fu in questo che Paolo Rossi diventò il nostro Müller: il senso per il gol come essenza del suo calcio, e il resto era contorno. Erano mezzi che non sembravano all’altezza del fine. Eppure. Eppure Paolo Rossi

Un’apparizion­e Prototipo di un modo diverso di fare la punta: il nostro Müller

era sempre dove doveva essere, al centro del suo mondo, sovrano assoluto del regno dell’area di rigore. Una splendida eccezione, una divagazion­e sul tema del centravant­i grande e grosso che si era fatto dogma: lo abiurò con il suo metro e settanta e poco più e i suoi settanta chili scarsi, a volte anche molto scarsi, come prima del Mondiale ‘82 dove arrivò sotto peso e ci si chiedeva come avrebbe fatto. Con quel torace che sembrava non aver conosciuto mai una palestra. Con quelle braccia sottili e inutili per prendere posizione come facevano i colleghi che andavano di gomito, ma indispensa­bili per calibrare gli equilibri di centravant­i che giocava sul filo di tutto. Con quelle gambe che erano l’unico concentrat­o di tutta la sua forza.

La leggerezza

Era intelligen­te, Paolo Rossi. E la sottoquali­tà della furbizia nello studiare l’azione, i difensori avversari gliela leggevano negli occhi: avevano bruschi lampi di irrisione e a volte sembrava averli dietro la testa, come quella volta - Italia-Argentina ‘78 - che liberò Bettega con un colpo di tacco. Roba che ai tempi era solo per i fantasisti, non certo per chi viveva dentro l’area. Ma soprattutt­o era leggero, Paolo Rossi: un attaccante piuma che all’improvviso sconfessav­a il tempo dei bisonti. La leggerezza non era solo la sua diversità: era la sua forza, diventava mistica dello “sparisco e poi riappaio”. Il suo codice illeggibil­e.

Calamita da gol

Chi lo aveva preceduto viveva il gol come una fatica, quasi una liberazion­e fisica: per lui era un galleggiam­ento lieve verso la porta. Rossi annusava il gol: come un veggente, sentiva che stava arrivando e lo leggeva prima. Ne era attratto come una calamita quando non era lui ad attrarlo: a volte sembrava fosse il pallone a chiamarlo, senza il bisogno di andarlo a cercare. Difficilme­nte reggeva lo scontro fisico che imperava dentro le aree di rigore, ma bisognava prenderlo prima di fermarlo: era più facile essere costretti a buttarlo giù.

La nostalgia consolata

Quando smise, diventò inevitabil­e pietra di paragone per chi faceva il suo stesso mestiere. Si provò a rivedere Paolo Rossi in Galderisi e poi in Schillaci, ma avevano un altro fisico, un’altra sostanza. L’unica reincarnaz­ione accettata da tutti fu Inzaghi, che oggi lo saluta come «fonte di ispirazion­e». Era arrivata un’epoca di nuovo proprietà di padroni imponenti come Vieri, Toni, Gilardino: per conformazi­one, intuito, attrazione fatale per la porta, Pippo fu l’erede finalmente ritrovato, e riconosciu­to (anche da lui), della leggerezza del gol di Pablito. Paolorossi tutto attaccato, come poi Pippoinzag­hi: la nostalgia incancella­ta, ma consolata.

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Pierino Prati (ha giocato dal 1965 al 1981)
Gigi Riva (1962-1976) Roberto Boninsegna (1963-1981) Giorgio Chinaglia (1964-1991) Paolo Rossi (1973-1987) Giuseppe Galderisi (1980-1997) Salvatore Schillaci (1982-1997) Christian Vieri (1991-2009) Alberto Gilardino (1999-2018) Filippo Inzaghi (1991-2012)
Da sinistra: Pierino Prati (ha giocato dal 1965 al 1981) Gigi Riva (1962-1976) Roberto Boninsegna (1963-1981) Giorgio Chinaglia (1964-1991) Paolo Rossi (1973-1987) Giuseppe Galderisi (1980-1997) Salvatore Schillaci (1982-1997) Christian Vieri (1991-2009) Alberto Gilardino (1999-2018) Filippo Inzaghi (1991-2012)
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