La Gazzetta dello Sport

«Un calcio più democratic­o e il centravant­i moderno: fu Paolo l’inizio di tutto»

«Rossi era la dimostrazi­one che tutti possono riuscire in grandi imprese, anche senza avere dei mezzi eccezional­i»

- di Andrea Schianchi

Era una farfalla. Leggero, agile e non sapevi come marcarlo: giocava d’anticipo

Aveva tre doti che fanno la differenza: mobilità, intuizione e capacità di sapersi smarcare

Anche se sembrava fragile, sapeva proteggere bene il pallone. E la squadra saliva Arrigo Sacchi

Paolo Rossi era il centravant­i della porta accanto. Nel senso che non aveva un fisico bestiale: tutt’altro. Non aveva i muscoli ipertrofic­i che si vedono oggi, né la «tartaruga» sulla pancia, e i chirurghi gli avevano pure asportato tre menischi su quattro. Un ragazzo comune, di media altezza e di medio peso, che possedeva nel cervello le qualità migliori: intelligen­za, umiltà, intuizione. Grazie ad esse, in quel magico 1982, vinse il Mondiale, di cui fu anche capocannon­iere, e il Pallone d’Oro. La normalità al potere. «Già, e questa è la dimostrazi­one che tutti possono riuscire in una grande impresa anche se non sono dotati di mezzi eccezional­i», puntualizz­a Arrigo Sacchi.

3Che tipo di centravant­i è stato Paolo Rossi?

«Non rientrava nella cultura calcistica italiana. Un atipico».

3Ci può spiegare? «Eravamo abituati, da sempre, a punte centrali alte e potenti. Energumeni, lo dico senza connotazio­ni negative, che sfondavano le difese avversarie a forza di cannonate. Tutto il calcio era così, con rare eccezioni».

3E poi venne Pablito.

«Lui trovò l’ambiente ideale al Vicenza. Gibì Fabbri lo impostò da centravant­i, prima faceva l’ala destra. Paolo, dove non arrivava con il fisico e con la potenza, arrivava con l’astuzia e con un tempismo che raramente ho visto.

E poi aveva un’ottima tecnica di base: se c’era da dribblare lo stopper non si tirava mica indietro».

3Non aveva, però, una caratteris­tica prepondera­nte sulle altre.

«Diciamo che non era uno specialist­a del ruolo. Perlomeno non lo era per come quel ruolo era sempre stato interpreta­to. Se pensi ai Riva, ai Boninsegna e ai Chinaglia, cioè alla generazion­e di attaccanti che lo ha preceduto, c’è un abisso. Pablito aveva tre doti che per un calciatore sono fondamenta­li: mobilità, intuizione e capacità di smarcament­o. Per i centrocamp­isti che giocavano con lui era facile trovarlo: lui sapeva sempre dove mettersi per ricevere il passaggio».

3Se prima i centravant­i erano bisonti d’area, Paolo Rossi che cos’era? «Una farfalla. Leggero, agile, imprevedib­ile quando stazionava nei pressi della porta avversaria. I difensori non sapevano mai come marcarlo, perché lui ne anticipava le intenzioni. Era furbo, scattante, ti superava con un gesto rapido e improvviso e ti lasciava di sasso. Credo che con Pablito sia cominciata l’era moderna dei centravant­i. Ha avuto un merito speciale e questo non va dimenticat­o: ha regalato orizzonti di speranza a tutti i calciatori e anche agli allenatori e alle società».

3In che senso?

«Beh, intanto ha fatto capire a chi voleva fare il centravant­i che non era necessario essere alti un metro e ottanta e avere muscoli da superatlet­a. Agli allenatori, e prima ancora alle società, ha lanciato un messaggio: si può giocare anche con un centravant­i piccolo e rapido, non c’è bisogno di spendere soldi per andarne ad acquistare uno grande e grosso».

3Qual era la dote che apprezzava di più in Pablito? «La mobilità. Non stava mai fermo. Lo trovavi a destra e a sinistra, veniva incontro e andava in profondità.

E poi, anche se era mingherlin­o, sapeva proteggere bene il pallone e così la squadra poteva salire. Era rapido, non consentiva agli avversari un attimo di distrazion­e. Guardate quello che ha combinato contro il Brasile nell’82: tre gol e tutti realizzati in modo diverso. Il primo di testa, il secondo rubando il pallone a un difensore, il terzo di rapina davanti alla porta. Incredibil­e. Ha regalato felicità a un intero Paese e per questo motivo tutti dobbiamo dirgli grazie. Lui amava il calcio e il calcio, in quell’occasione e in tante altre, ha amato Pablito. I brasiliani un po’ meno, ma questo è un altro discorso... Pablito è diventato un’icona dell’Italia nel mondo: non è poco. Anzi: è tanto, tantissimo».

3Il trionfo della normalità, si diceva.

«Lui dimostrava con i fatti che il calcio è uno sport democratic­o: lo possono praticare tutti, quelli bassi e quelli alti, quelli muscolosi e quelli che non lo sono. A pallacanes­tro, ad esempio, uno basso non può giocare. A calcio, invece, Maradona era un fenomeno e non so se arrivava al metro e settanta. E Pablito pure. Stava in mezzo all’area, marcato da stopper che erano il doppio di lui, e sapeva come superarli».

3C’è stato, nel calcio postPablit­o, un centravant­i che per caratteris­tiche gli assomiglia­va? «Sicurament­e Pippo Inzaghi. Rapidità, furbizia, scatto bruciante. Centravant­i moderni, insomma. Ma Paolo, tecnicamen­te, aveva qualità superiori a quelle di Pippo».

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