«Un calcio più democratico e il centravanti moderno: fu Paolo l’inizio di tutto»
«Rossi era la dimostrazione che tutti possono riuscire in grandi imprese, anche senza avere dei mezzi eccezionali»
Era una farfalla. Leggero, agile e non sapevi come marcarlo: giocava d’anticipo
Aveva tre doti che fanno la differenza: mobilità, intuizione e capacità di sapersi smarcare
Anche se sembrava fragile, sapeva proteggere bene il pallone. E la squadra saliva Arrigo Sacchi
Paolo Rossi era il centravanti della porta accanto. Nel senso che non aveva un fisico bestiale: tutt’altro. Non aveva i muscoli ipertrofici che si vedono oggi, né la «tartaruga» sulla pancia, e i chirurghi gli avevano pure asportato tre menischi su quattro. Un ragazzo comune, di media altezza e di medio peso, che possedeva nel cervello le qualità migliori: intelligenza, umiltà, intuizione. Grazie ad esse, in quel magico 1982, vinse il Mondiale, di cui fu anche capocannoniere, e il Pallone d’Oro. La normalità al potere. «Già, e questa è la dimostrazione che tutti possono riuscire in una grande impresa anche se non sono dotati di mezzi eccezionali», puntualizza Arrigo Sacchi.
3Che tipo di centravanti è stato Paolo Rossi?
«Non rientrava nella cultura calcistica italiana. Un atipico».
3Ci può spiegare? «Eravamo abituati, da sempre, a punte centrali alte e potenti. Energumeni, lo dico senza connotazioni negative, che sfondavano le difese avversarie a forza di cannonate. Tutto il calcio era così, con rare eccezioni».
3E poi venne Pablito.
«Lui trovò l’ambiente ideale al Vicenza. Gibì Fabbri lo impostò da centravanti, prima faceva l’ala destra. Paolo, dove non arrivava con il fisico e con la potenza, arrivava con l’astuzia e con un tempismo che raramente ho visto.
E poi aveva un’ottima tecnica di base: se c’era da dribblare lo stopper non si tirava mica indietro».
3Non aveva, però, una caratteristica preponderante sulle altre.
«Diciamo che non era uno specialista del ruolo. Perlomeno non lo era per come quel ruolo era sempre stato interpretato. Se pensi ai Riva, ai Boninsegna e ai Chinaglia, cioè alla generazione di attaccanti che lo ha preceduto, c’è un abisso. Pablito aveva tre doti che per un calciatore sono fondamentali: mobilità, intuizione e capacità di smarcamento. Per i centrocampisti che giocavano con lui era facile trovarlo: lui sapeva sempre dove mettersi per ricevere il passaggio».
3Se prima i centravanti erano bisonti d’area, Paolo Rossi che cos’era? «Una farfalla. Leggero, agile, imprevedibile quando stazionava nei pressi della porta avversaria. I difensori non sapevano mai come marcarlo, perché lui ne anticipava le intenzioni. Era furbo, scattante, ti superava con un gesto rapido e improvviso e ti lasciava di sasso. Credo che con Pablito sia cominciata l’era moderna dei centravanti. Ha avuto un merito speciale e questo non va dimenticato: ha regalato orizzonti di speranza a tutti i calciatori e anche agli allenatori e alle società».
3In che senso?
«Beh, intanto ha fatto capire a chi voleva fare il centravanti che non era necessario essere alti un metro e ottanta e avere muscoli da superatleta. Agli allenatori, e prima ancora alle società, ha lanciato un messaggio: si può giocare anche con un centravanti piccolo e rapido, non c’è bisogno di spendere soldi per andarne ad acquistare uno grande e grosso».
3Qual era la dote che apprezzava di più in Pablito? «La mobilità. Non stava mai fermo. Lo trovavi a destra e a sinistra, veniva incontro e andava in profondità.
E poi, anche se era mingherlino, sapeva proteggere bene il pallone e così la squadra poteva salire. Era rapido, non consentiva agli avversari un attimo di distrazione. Guardate quello che ha combinato contro il Brasile nell’82: tre gol e tutti realizzati in modo diverso. Il primo di testa, il secondo rubando il pallone a un difensore, il terzo di rapina davanti alla porta. Incredibile. Ha regalato felicità a un intero Paese e per questo motivo tutti dobbiamo dirgli grazie. Lui amava il calcio e il calcio, in quell’occasione e in tante altre, ha amato Pablito. I brasiliani un po’ meno, ma questo è un altro discorso... Pablito è diventato un’icona dell’Italia nel mondo: non è poco. Anzi: è tanto, tantissimo».
3Il trionfo della normalità, si diceva.
«Lui dimostrava con i fatti che il calcio è uno sport democratico: lo possono praticare tutti, quelli bassi e quelli alti, quelli muscolosi e quelli che non lo sono. A pallacanestro, ad esempio, uno basso non può giocare. A calcio, invece, Maradona era un fenomeno e non so se arrivava al metro e settanta. E Pablito pure. Stava in mezzo all’area, marcato da stopper che erano il doppio di lui, e sapeva come superarli».
3C’è stato, nel calcio postPablito, un centravanti che per caratteristiche gli assomigliava? «Sicuramente Pippo Inzaghi. Rapidità, furbizia, scatto bruciante. Centravanti moderni, insomma. Ma Paolo, tecnicamente, aveva qualità superiori a quelle di Pippo».